Giovanni Coppola

 

Il gruppo benedettino-cluniacense nell’ambito dell’architettura normanna in Italia meridionale

 

L’Italia meridionale normanna offre un panorama architettonico di straordinario interesse, la cui origine è da ricercare in quel retroterra mentale in cui confluivano due importanti culture: quella occidentale (longobarda e carolingio-ottoniana) e quella orientale (bizantino-musulmana).

Al di là dell’indubbia propensione a difendere e a consolidare con le armi le proprie posizioni, “la vicenda normanna” rappresenta un momento estremamente significativo nella storia dell’Europa medievale e soprattutto del Mezzogiorno d’Italia. I Normanni, discendenti dei famosi predoni vichinghi seppero, a contatto diretto con la cultura mediterranea, superare le loro originarie connotazioni, dimostrando una non trascurabile capacità di adattamento alle situazioni e un notevole grado di organizzazione politica. Prova ne sia l’organizzazione di uno Stato nel senso moderno del termine, vale a dire basato sulla capillarizzazione dei centri di potere che, opportunamente collegati con il livello centrale, finivano per rafforzare la struttura di tipo statuale che proprio in quel contesto trovava le prime forme di espressione.

Questa “conquista normanna” rappresentò, tuttavia, per certi aspetti una vittoria anche italiana. Essa, infatti, fornì all’Italia meridionale l’occasione per sciogliere i secolari legami che la univano all’Oriente (bizantino e arabo) ed inserirsi, a pieno titolo, nel nascente Occidente europeo in cui, da questo momento in poi, accanto ai referenti culturali e artistici nord-europei e lombardi, riusciranno a trovar spazio quelli mediterranei e orientali. I Normanni portarono nel medioevo italiano l’esperienza cavalleresca e il potere monarchico: due fatti ignoti al mondo comunale, ma determinanti nel trasformare il Meridione da area periferica in grande potenza dell’Europa dei secoli XI-XII. Con gli Altavilla comincia così una nuova civiltà che ancora oggi continua ad affascinare gli studiosi del mondo intero, poiché offre l’esempio unico nella storia di uno Stato fatto, come notava il Burckhardt, “ad opera d’arte”.

Il riconoscimento pontificio di Niccolò II alle imprese militari normanne, facilitato dall’abate Desiderio e dal Principe Riccardo di Capua e culminato col giuramento feudale del Guiscardo (Melfi 1059): legittimato Dei gratia et sancti Petri dux Apuliae et Calabrie et utroque subveniente futurus Siciliae, fu determinante per la creazione del successivo Regnum Siciliae (1130), sotto Ruggero II.

La matrice dell’architettura normanna va ricercata non solo nel lento sincretismo, che basava la propria originalità nelle libere espressioni socioculturali e storico-artistiche del Mezzogiorno d’Italia nei secoli XI-XII, ma soprattutto nella concezione della progettazione edilizia di quel tempo. Tale concezione si basava essenzialmente sull’imitatio delle piante architettoniche di base più diffuse, la cui metodologia è stata ben descritta da Du Colombier: “L’imitazione degli edifici già costruiti è stato uno dei metodi di lavoro più frequenti durante tutto il medioevo. Si è costruito alla somiglianza di quella o quell’altra chiesa celebre, e in questo modo sono nate, soprattutto prima del gotico, tante scuole regionali”.

Si tratta di una inventio, nel senso proprio del termine in quest’epoca, ovvero dell’elaborazione di un modello architettonico, derivante dall’imitatio. Le cronache, in merito a ciò, sono abbondanti.

La pratica del “modello”, diffusa su tutto il territorio meridionale va quindi intesa come utilizzo di uno schema teorico di massima (imitatio), degno di essere imitato in quanto codificazione di messaggi informatori essenziali tratti dagli schemi architettonici originati dagli ordini monastici del tempo (benedettini, cluniacensi, eccetera).

La trasposizione dalla pianta all’alzato creava, invece, un secondo modello le cui radici sono più difficilmente decifrabili. Tale modulo, essenzialmente stilistico-strutturale, veniva ideato dagli architetti attraverso l’introduzione di linguaggi artistici ora particolari e legati a diverse aree regionali, ora a tradizioni costruttive conosciute e rinomate, tuttavia sempre fortemente influenzati dalle soluzioni tecniche derivanti dalla statica dell’edificio o dal tipo di materiale impiegato.

I Normanni raggiunsero tale complessità ideativa ed esecutiva, cui è sotteso un grande sforzo progettuale, unicamente in virtù del fatto che, il prodotto formale e strutturale cui pervennero, non si identificava in una concezione autonoma e limitata dell’architettura ma sviluppava, appunto, le precedenti conoscenze ed esperienze provenienti dalle varie culture, soprattutto tenendo conto nel processo creativo delle mutazioni del gusto.

In un’epoca in cui non esistevano o quasi, trattati sull’arte della costruzione, l’architetto normanno per elaborare le proprie piante aveva l’esigenza di visionare un gran numero di edifici. In mancanza del supporto grafico del disegno a scala ridotta, che verrà ampiamente utilizzato nel successivo periodo gotico, l’architetto trasmetteva alle maestranze le sue indicazioni oralmente, tracciando praticamente sulle murature e sul terreno con compassi e squadre semplici disegni di alcuni dettagli costruttivi.

In effetti il cantiere era un luogo di sperimentazione continua dove scalpellini e muratori avevano il solo compito di riprodurre fedelmente lo schema essenziale (a scala metrica reale) disegnato dall’architetto, come testimonia ancora qualche raro segno inciso riscontrato sulle superfici murarie di alcune architetture religiose edificate sotto la dominazione normanna.

In Puglia, a Bari, è visibile un arco lunato tracciato sulla superficie muraria della cattedrale lungo un tratto di un muro di fondo del porticato che potrebbe risalire a resti murari dell’XI secolo; a Bisceglie, sui paramenti murari della chiesa di Sant’Adoeno (1074) e Santa Margherita (fine XII), si trovano disegnati profili di archi acuti sovrapposti e, a volte, timpani, quest’ultimi potrebbero essere interpretati come disegni preparatori per la costruzione di un’edicola; a Molfetta, sulle murature della chiesa cattedrale di San Corrado (fine XII), ormai intaccate dalla salsedine, si rileva il tracciato di un arco a tutto sesto, di un arco a sesto acuto insieme ad altri contrassegni di progetto.

In Basilicata, a Venosa (fine XI-inizio XII), sulla facciata interna della chiesa “incompiuta”, è stato riscontrato il tracciato, a grandezza naturale, per la progettazione delle colonne. In Sicilia, “bozze” da cantiere sono state rinvenute a Monreale durante un restauro: dei tre disegni scoperti, due furono incisi sulla superficie dell’intonaco e uno venne tracciato presumibilmente a carboncino. Altri quattro motivi geometrici a tratto sono stati rinvenuti nella chiesa di S. Giorgio (prima metà del XII s.) presso Gratteri, in provincia di Palermo.

E’ evidente, quindi, che l’architetto in epoca romanica riveste un ruolo più esteso rispetto ai suoi colleghi di oggi, non solo concepisce le piante (inventio), ma ne assicura, con funi e picchetti, l’esatta esecuzione sul terreno, essendo il solo ad avere in testa, nella sua totalità, gli schemi da cui trarre l’integralità del progetto (opus in mente conceptum) e i suoi dettagli costruttivi (tipo di muratura, modanature, profili di archi, elementi scultorei eccetera). Egli non poteva demandare ad altri la direzione del lavoro non essendo ancora in uso la pratica corrente di adottare scale metriche per la rappresentazione grafica dell’opera architettonica. Le reti viarie agevolavano tuttavia il lavoro di ricerca, facilitando la penetrazione dei molteplici contributi (bizantini, arabi, lombardi, borgognoni eccetera) e consentendo ai progettisti di produrre le opportune varianti alle configurazioni planimetriche di riferimento.

In sintesi, esistendo sempre una continuità storica anche il pensiero che informa la progettazione nei secoli XI-XII è il risultato di un’epoca non estranea alle esperienze concentrate e sintetizzate nelle opere precedenti.

Una classificazione dei paesaggi architettonici, in relazione ai principali modelli adottati dai costruttori normanni, può tradursi orientativamente nel seguente schema già delineato da Mario D’Onofrio:

a)     gruppo benedettino-cassinese, il cui riferimento progettuale è la chiesa di San Benedetto (1066-1071) a Montecassino, ideata dall’abate Desiderio;

b)     gruppo franco-normanno, in cui schema tipo è la cattedrale di Aversa (1090);

c)     gruppo pugliese, il cui prototipo è San Nicola di Bari (1087ca.);

d)    gruppo benedettino-cluniacense, la cui tipologia è da individuarsi nella chiesa della SS. Trinità di Mileto (1080ca.), a cui appartengono edifici non solo calabresi ma anche siciliani;

e)     gruppo siciliano che pur avendo in parte molte connessioni con la tipologia precedente, assumerebbe una posizione indipendente in quanto accorperebbe le esperienze architettoniche e decorative più diffuse nel Mezzogiorno tra i secoli XI e XII, comprese quelle d’oltralpe.

L’architettura del gruppo benedettino-cluniacense

L’accordo tra il papa Nicolò II e Roberto il Guiscardo, stipulato nel 1059, fu fondamentale per la “riconquista “ religiosa della Calabria, operata da parte dei Normanni a danno dei possedimenti brasiliani, che si concluse con la presa di Reggio (1060). L’intesa venne continuata da papa Alessandro II (1067) e dallo stesso Guiscardo, che intrapresero un vero e proprio smantellamento dell’impalcatura militare, politica e religiosa di Bisanzio.

La nuova classe politica normanna, per fedeltà giurata alla Chiesa, costruì nuovi centri di culto, elargendo alle nuove fondazioni ogni sorta di ricchezze e privilegi, sottraendole ai centri basiliani della regione: ut de monasteriis grecorum monachorum edificaret latina monasteria.

In questo piano politico di latinizzazione emerge la figura del normanno Roberto di Grandmesnil, abate di Saint-Evroult-en-Ouche, costretto all’esilio dal duca di Normandia Guglielmo il Conquistatore. Tant’è che il Giuscardo, duca di Puglia e di Calabria, gli affida nel 1067 il programma di ricostruzione religiosa e monastica sotto l’egida della Chiesa romana.

Tre monasteri benedettini saranno oggetto delle attenzioni del Grandmesnil e del suo seguito composto da undici monaci.

In Basilicata, la SS. Trinità di Venosa (1060 ca.) fondata qualche tempo prima del suo arrivo, e più direttamente le abbaziali di Santa Eufemia (fondata nel 1062) e quella di S. Michele Arcangelo di Mileto (consacrata il 19 dicembre 1080).

Figura 1. Pianta della SS.ma Trinità di Mileto. (Dis. G. Occhiato).È proprio quest’ultimo insediamento, dedicato nel corso del XII secolo alla SS. Trinità, il probabile riferimento dal punto di vista formale di tutta una serie di edifici posteriori sorti in area calabrese (cattedrale di Mileto fondata nel 1081; chiesa abbaziale di S. Maria della Roccella della fine dell’XI secolo e cattedrale di Gerace costruita tra il 1085-1110), anche con chiese gravitanti nell’orbita dei Basiliani (ad esempio, S. Giovanni Vecchio di Stilo a Bivongi edificata all’inizio del XII s.). Suggerisce inoltre alcuni rimandi tipologici direttamente all’area siciliana: Mazara del Vallo (1086-1093), Catania (1086-1090), Messina (inizio XII s. ca.), e il complesso monumentale di Cefalù (1131/32-1148).

Queste ultime architetture non devono necessariamente relegare la Sicilia nell’ambito di una filiazione diretta dalla Calabria, che trova nella Trinità di Mileto l’unico impianto tipologico da cui si origina il ramo calabro, definito dal modello benedettino-cluniacense. Si potrebbe ragionevolmente ipotizzare l’introduzione simultanea, nelle due regioni, del tema architettonico cluniacense innestato su forme tradizionali saldamente acquisite.

 

 

Figura 2. Ruderi dell'Abbazia della SS.ma Trinità.Tutto questo, naturalmente, nulla toglie alla specificità dell’edificio miletese che resta comunque un esempio significativo (non importa se il primo o meno) della comparsa della tipologia nordica in queste regioni. 

Poco importa altresì che la sua incidenza sugli esiti costruttivi dell’area siciliana sia stata diretta o riflessa, più o meno determinante, sembra opportuno ribadirne la specificità, nel quadro della rispondenza formale agli edifici isolani e nella prospettiva di un comune e parallelo rinnovamento culturale nel Mezzogiorno.

Al di là degli indiscutibili rapporti architettonici calabro-siculi, questi ultimi tuttavia non appaiono riducibili per forza nei termini di una genetica dipendenza formale dall’una o dall’altra regione, come spesso è stato affermato.

L’abbaziale della SS. Trinità di Mileto (consacrata nel 1080), prescelta da Ruggero I come mausoleo per sé e la sua famiglia, per quanto oggi si sappia, grazie anche a ricerche archeologiche condotte da Paolo Peduto, si sarebbe configurata nella facies originaria con un transetto sporgente e un coro profondo articolato su tre absidi gradonate di cui quella centrale più ampia delle laterali. Tale impianto planimetrico presenta il corpo dell’abside mediana avanzato rispetto alla linea parallela da cui partono le absidi laterali.

Un siffatto schema non trova alcun riscontro nel Mezzogiorno prima del 1080, mentre è sicuramente ascrivibile alla nota abbaziale di Cluny II, risalente all’epoca dell’abate Mayeul (955-991). Inoltre, alcune repliche sono da ricercare in area normanna nell’abbaziali di Bernay (1015-1017), Lonlay (1020), Santo Stefano (1060), Lessay (1091 ca.) e forse nella stessa abbaziale di Grandmesnil, ovvero Saint-Evroult-en-Ouche (consacrata nel 1099), sebbene sia ancora oggi archeologicamente sconosciuta. Nell’Inghilterra anglo-normanna, dopo la conquista del 1066, la pianta con cappelle gradonate venne subito adottata in numerosi monumenti dell’XI secolo. Si pensi alla cattedrale di Canterbury e di Durham, all’abbazia di Sant’Albans, alla chiesa a Ely e alla priorale di Blyth.

Mentre per il territorio sassone l’influsso normanno è indiscutibilmente provato dalla numerosa presenza di abati e monaci costruttori provenienti dalla Normandia, resterebbe ancora da chiarire come la soluzione cluniacense abbia potuto diffondersi dalla Francia in una regione tanto distante geograficamente, quale il Sud Italia, e attraverso quali vettori sia stata introdotta in Mileto prima che altrove.

Sappiamo da Orderico Vitale, che l’abate Roberto di Grandmesnil aveva iniziato a Saint-Evroult, senza però condurla a termine, la costruzione di una nuova abbaziale secondo gli schemi di Cluny e Bernay. In seguito alla sua fuga in Italia l’abate-architetto, dopo aver delegato ad altri la cura di Sant’Eufemia e di Venosa, decise di fermarsi a Mileto, dove forse intese realizzare il suo antico progetto, proponendo una soluzione che ripetesse in pianta quella avviata nel monastero di Saint-Evroult per coronare così un’antica aspirazione. L’ipotesi è probabile, ma mancano ancora le riprove sul piano archeologico delle due abbaziali.

Da alcuni saggi di scavo sulle fondazioni della ormai scomparsa chiesa di Santa Maria della Matina presso S. Marco Argentano vicino Mileto, risalente agli anni 1059-1065 anno della consacrazione, pare che essa avesse un nucleo originario costituito da tre absidi semicircolari allineate su un transetto: ciò costituirebbe un riferimento abbastanza preciso alla tipologia benedettino-cassinese. Anche per la chiesa di Sant’Eufemia, ampiamente studiata da Giuseppe Occhiato, possiamo finalmente affermare che non ebbe attinenze progettuali di tipo cluniacense.

In conclusione, le testimonianze letterarie, figurative ed archeologiche fino ad oggi disponibili non sono sufficienti a restituire, in termini di assoluta certezza, la situazione originaria dell’edificio militese e offrono piuttosto una realtà dai contorni non ancora ben definiti. L’individuazione della prima chiesa benedettino-cluniacense nel Mezzogiorno normanno resterebbe in tal modo una questione aperta che solo la conclusione del progetto di scavo archeologico riuscirà forse a risolvere.

Figura 3. Pianta dell'Abbazia di S. Maria di S. Eufemia.Concludendo da queste breve sintesi complessiva dell’architettura religiosa normanna nel meridione d’Italia, sia pure limitatamente agli episodi più significativi della tipologia architettonica benedettino-cluniacense, appare evidente che i Normanni poterono contare sul contributo di diverse tradizioni culturali, dando vita ad una singolare Koiné mediterranea, nella cui qualificazione subentrano apertamente le componenti latine, bizantine e musulmane. Nelle cattedrali e abbazie del Mezzogiorno normanno le inflessioni sono tra le più variegate e offrono un’ampia casistica di esempi, che non vanno visti come una giustapposizioni di schemi, ma come intreccio di esperienze molteplici, a ragione delle presenza di diversi sostrati etnici regionali.

In particolare, il “classicismo” desideriano, che partendo dalla Campania giungerà in Abruzzo e nel basso-Lazio, la fortuna della tipologia benedettino-cluniacense con absidi gradonate presente in Calabria, Basilicata e Sicilia, la tipologia franco normanna con deambulatorio e cappelle radiali in Campania e Basilicata, non sono che gli anelli dimostrativi di una catena ideale che, in nome del monachesimo benededettino e della classe politica normanna, crea interessanti connessioni tra l’area mitteleuropea e le estreme regioni italiane.

Gli accenti nordici si manifestano nell’adozione di alcune soluzioni architettoniche: si pensi ai cori profondi, agli alzati monumentali, alle torri simmetriche allineate o meno con la facciata, al muro spesso con camminamento interno, agli archi intrecciati e alle tarsie policrome.

Per quanto riguarda gli esempi tratti dalla tradizione bizantina e araba, si possono evidenziare qui le soluzioni delle cupole in asse, evidenti in numerose chiese pugliesi; l’impianto centrico, secondo la formula della croce inscritta sul modello di alcune chiese calabre e siciliane, e la decorazione a mosaico di alcune importanti architetture.

La forte impronta islamica, invece, si rileva nella decorazione dei soffitti o nell’assemblaggio delle capriate, oltre che nell’adozione per la copertura di cupole a sesto rialzato presente in alcune chiese siciliane.

Per concludere, l’intelligenza e il ricorso da parte dei duchi e dei re normanni, durante l’XI e il XII secolo, ad architetti, artisti e maestranze, come riporta Goffredo Malaterra, undecumque terrarum artificiosis caementariis conductis, ne caratterizza peculiarmente l’architettura e getta in tal modo un ponte che, dall’Europa porta a Mezzogiorno, fino all’Oriente.

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