LA
CACCIA E I GIOCHI Paolo Galloni I
tratti fondamentali dei costumi venatori dei normanni non differiscono da
quelli che in materia hanno caratterizzato la cultura medievale nel suo
complesso. La
caccia non era uno sport, nel senso odierno del termine, né un semplice
passatempo: era il teatro in cui il guerriero si auto rappresentava
ritualmente davanti ai suoi pari, il luogo in cui il potere metteva in
scena il proprio volto militare, connesso all'uso della forza e della
violenza. Concretamente,
ciò significava che la caccia tendeva a riprodurre i meccanismi della
battaglia e del duello. Da
un lato gli animali erano braccati dai cacciatori a cavallo nel corso di
battute furiose, preferibilmente nel difficile e accidentato terreno della
foresta; dall'altro si prediligeva terminare l'inseguimento con una sfida
«corpo a corpo»con la fiera, per molti versi interpretata come omologa
al nemico. I
cronisti documentano quanto la dimensione bellica della caccia fosse non
simulata ma reale, e reali i rischi corsi dai partecipanti (non era evento
troppo raro che qualcuno vi perdesse la vita). In
quanto fortemente legata alla mentalità guerriera, la pratica cinegetica
era parte integrante dell' educazione dei rampolli della nobiltà. È
il caso, ad esempio, di Riccardo I, conformemente alle prescrizioni del
padre Guglielmo Lunga Spada, secondo quanto attestato dal cronista
anglonormanno Benoìt. In
un altro passo della Chronica di Benoìt il coraggio del medesimo
Guglielmo si esprime nella lotta contro un cinghiale. Similmente
Raoul, fratello bastardo del duca Riccardo, dimostra il proprio valore
abbattendo, malgrado la giovane età e da solo, un orso inferocito che
aveva messo in fuga tutti i suoi compagni. I
cronisti anglonormanni, segnalando la passione dei loro eroi per la
caccia, intendono esplicitamente mostrare la perfetta adesione ai valori
dell' aristocrazia feudale. La
caccia era un evento a forte pregnanza simbolica, non un semplice
passatempo, ma un rito in cui una componente della società,
l'aristocrazia, confermava se stessa con i propri valori. Si
cacciava in gruppo e i partecipanti erano animati da un accanito spirito
di emulazione. Ognuno si impegnava al massimo. In un terreno
accidentato,spesso il fitto della selva, rischiando l'osso del collo o di
essere trafitto da un dardo indirizzato a un cervo, il cacciatore lanciava
il cavallo all'inseguimento degli animali stanati dai cani. Egli
aspirava a riportare il carniere più ricco e a esibire le sue capacità e
il suo ardimento misurandosi
con una fiera in uno scontro ravvicinato. È
possibile distinguere tra una caccia decisamente sbilanciata verso la
simulazione della guerra e un' altra in cui le componenti ludiche erano più
farri. In
entrambe comparivano il rischio, la concitazione e i lunghi ed estenuanti
inseguimenti a cavallo; ma se nella prima era impiegata principalmente
un'arma da combattimento come la spada,nella seconda compariva l'arco, che
il guerriero disdegnava in guerra. Anche
gli avversari tendevano a essere diversi: animali aggressivi come orsi,
cinghiali e uri da un lato, cervidi dall'altro. Nell'«arazzo»
di Bayeux si osservano chiaramente i soldati di alto rango a cavallo, la
spada in pugno (o in alternativa la lancia lunga e la mazza, armi da corpo
a corpo), mentre i subalterni appiedati impugnano l'arco. Il
fatto che il cacciatore rifiutasse di scagliare dardi contro il nemico
umano in guerra e lo accettasse invece contro gli animali fa pensare che
il fatto
di impiegare un' arma o un' altra fosse portatore di un
significato. Nelle
fonti si incontrano sia descrizioni di caccia caratterizzate da un
vocabolario prettamente bellico-eroico, senza riferimenti alla gioia e al
divertimento ma solo al valore e al coraggio dei protagonisti, sia
situazioni in cui tutto appare come piacere e sollievo. ebbene,
le corrispondenze con le due tipologie sopra evidenziate - spada per la
prima e arco per la seconda -sono
quasi sempre strettissime. È
comunque importante segnalare che le associazioni che si incontrano nelle
fonti tra caccia e gioco non si collocano mai sul piano della perfetta
identità. Dal
punto di vista della cultura dell' epoca ci pare di poter identificare la
principale ragione: l'attività cinegetica, pur contenendo al suo interno
componenti ludiche, non era inscrivibile nel suo complesso in una pura e
semplice psicologia del gioco in quanto ricreazione di uno spazio-tempo
che fuoriesce dall' ordinario. Non
vi era nella caccia un devertere ma piuttosto un convergere degli attori
verso la
propria coscienza; vi era, cioè la costante riconferma dei
medesimi valori fondanti la mentalità guerriera, valori operativi in ogni
momento della vita, in guerra, a caccia,
a tavola, nei rapporti sociali. Resta
comunque il fatto che alcuni giochi e passatempi erano parte integrante
della vita nobile. Tristano,
quando appare sulla scena, riassume in sé le qualità che ognuno a corte
desiderava possedere. Egli,
oltre a essere imbattibile a duello, esperto cacciatore, ispirato
compositore,eccelle anche nei giochi degli scacchi, delle tavolette e dei
dadi. L'associazione
di tali giochi a Tristano rivela tuttavia la loro collocazione culturale
ambigua. Tristano,
infatti, non va scordato, è anche un trasgressore:egli fugge con la
moglie del suo signore, e trova rifugio nella foresta come i briganti, da
cacciatore diventa cacciato. I
giochi (le cui potenzialità trasgressive si concretizzavano nel loro
frequente degenerare in rissa),in misura proporzionale alloro successo,
subivano sovente e non a caso la condanna di influenti uomini di chiesa (e
il decretum di graziano, nel secolo XII, volle vietare i giochi agli
ecclesiastici). Nel
corso del medioevo si manifestò una tendenza al progressivo esasperarsi
delle differenze tra le varie componenti della società. Così
la caccia dei nobili si contrappose sempre più nettamente a quella dei
villani per il fatto di svolgersi a cavallo e non a piedi, per il ricorso
ad armi da guerra adatte al combattimento ravvicinato, perla presenza di
ritualità che veicolavano valori che andavano ben al di là del banale
procacciamento di cibo. Progressivamente
le opportunità di caccia a disposizione dei pauperes si ridussero al
punto di allontanare quasi del tutto la selvaggina dalle mense umili. Una
delle eccezioni alla suddetta tendenza è data proprio dal gioco dei
dadi,che continuò ad appassionare gli uomini indipendentemente dalla
posizione sociale. Nel
XIII secolo apparvero addirittura degli artigiani specializzati nella
fabbricazione di dadi. Attorno
al 1260 il loro statuto fu regolarmente registrato nel livre des métiers
di Etienne Boileau. Vi
si annotarono anche le precauzioni volte a impedire la fabbricazione di
dadi truccati. Al
contrario dei dadi, gli scacchi, arrivati dall'oriente attorno all' anno
mille con il tramite degli arabi, si imposero come pratica nobile. Indubbiamente
le ragioni di questo successo sono da rintracciare nell' essere gli
scacchi una finzione di battaglia - e di un tipo di battaglia in cui i
vari pezzi si affrontano in un corpo a corpo facilmente riconducibile ai
modelli della guerra feudale. Proprio
dall'Italia meridionale normanna proviene una delle più antiche e
preziose collezioni di scacchi, detti erroneamente«scacchi di Carlo Magno»
(la leggenda voleva che fossero un dono del grande sultano Harun-al-Rashid). Nell'ambito
delle interconnessioni tra caccia e giochi un discorso a parte merita la
falconeria, in cui la componente spiccatamente ludica era molto maggiore
rispetto alla caccia grossa. Organizzata
intorno all'acculturazione di un essere selvaggio, essa era un' attività
che permetteva alla nobiltà di autocontemplarsi simbolicamente
nell'azione del rapace, animale del cielo, quindi «alto», e aggressivo. Tuttavia,
proprio perché a colpire la preda era di fatto il falco, l'uccellagione
non era del tutto omologabile alle altre cacce. Inoltre
essa era praticata negli
spazi aperti e vicino agli acquitrini, in un terreno diverso da
quello della caccia grossa, e contro animali di piccole dimensioni, «deboli»,
che sarebbero stati altrimenti indegni del cacciatore che il rapace
sostituisce. La
caccia
grossa, con i cani e a cavallo, era associata agli spazi selvaggi e
rigorosamente riservata alla patte maschile della società. L'uccellagione,
praticabile a piedi negli spazi aperti e coltivati, aperta alle donne, era
più dell' altra un gioco in quanto, rispetto all' organizzazione della
società, sfumava le differenze tra le attività riservate ai
due sessi e, introducendo un mediatore tra uomo e animale,
trasformava il cacciatore in osservatore. Si qualificava maggiormente, pertanto, come momento extra ordinario.
Aroldo con il falcone preceduto da una muta di cani, particolare dell'arazzo di Bayeux
Trovava
già a ricoprire la funzione di immagine dell'efficacia del potere e ciò
spiega la specialissima attenzione che Guglielmo il Conquistatore e i suoi
successori le riservarono. Le
severe e restrittive norme in materia venatoria
da loro emanate dopo la conquista dell'Inghilterra erano parte di un
programma volto a imporre un forte potere centrale tanto sugli umili
quanto sui nobili. Orderico
Vitale attesta che Enrico I, quartogenito di Guglielmo il Conquistatore e
incoronato re nel 1100, «omnem ferarum venatinnem totius Angliae sibi
peculiarem vindicavit», vale a dire si arrogò i diritti della caccia
alle fiere relativi all'intero regno. È
interessante notare che il sovrano impone le proprie prerogative non
sull'intera cacciagione, ma sulle bestie feroci, a conferma del fatto
che la sua pretesa si collocava nel campo semantico dell'esercizio
della forza, della violenza guerriera. Il
re vittorioso,
in quanto primo dei combattenti, doveva anche essere il primo dei
cacciatori. Le
due figure, in effetti,tendevano a coincidere. La
regolamentazione del sistema forestale introdotta dai Normanni perfezionò
la corrispondente istituzione carolingia,da cui direttamente derivava. Essi
si attribuirono per legge lo stesso potere di Carlo Magno e
successori,riuscendo a metterlo in pratica con il massimo dell' efficacia
e della capillarità. Ludovico
il Pio, in alcuni capitolari,decretò
che le aree incolte rese autonomamente «foresta» dai potentes del
regno senza la sua necessaria autorizzazione
venissero «deforestate», restituite cioè al loro precedente
stato di zone aperte a un utilizzo comune. Similmente
i normanni stabilirono che le foreste potevano essere istituite solamente
dal re. La
loro conservazione,così come la tutela della fauna, venne sottoposta
allaspeciale giurisdizione di speciali funzionari distinti dagli sceriffi. Erano
poi di estrema durezza le punizioni previste
per chi si macchiava del cosiddetto «delitto di caccia» nelle aree in
cui vigevano i divieti. I
bracconieri rischiavano la mutilazione, a volte addirittura la morte. L'ira
di
Guglielmo il Conquistatore si spinse fino a far radere al suolo alcuni
villaggi allo scopo, così pare, di proteggere dal bracconaggio la foresta
di Hampshire. I
Cronisti Wace e Guillaume di Jumièges ci hanno trasmesso la notizia di
molte rivolte scoppiate per reazione alla durezza del regime forestale e
represse nel sangue dai sovrani nel corso dei secoli XI e XII. Al
pari di quanto avveniva (osi auspicava che avvenisse) presso i Carolingi,
se erano nobili a commettere le infrazioni essi dovevano essere condotti
al cospetto del re per essere da lui giudicati. Il
potere imposto dalla corona sull'incolto indisponeva i baroni su due
fronti. Infatti,
in tempi in cui il peso dell' economia silvo-pastorale era ancora
notevole, lo sfruttamento delle foreste rivestiva una forte importanza
anche dal punto di vista fiscale. La
nobiltà vedeva quindi messa in crisi dall'invadenza regale sia la propria
posizione
sociale sia quella economica. Non
stupirà pertanto trovare
nella Magna Charta Libertatum, imposta dai nobili al re Giovanni Senza
Terra all'inizio del secolo XIII, alcuni articoli espressamente volti a
limitare l'assoluto controllo del sovrano su tutto ciò che concerneva la
caccia. Gli
eccessi della legislazione venatoria anglonormanna ebbero ripercussioni
nell'immaginario popolare:il leggendario Robin Hood, paladino dei deboli
contro i soprusi dei potenti, era un bracconiere che con la sua banda
aveva occupato una foresta e imposto su di essa un potere di fatto. Si
trattava in sostanza del ristabilimento immaginario dei diritti di quei
poveri villici che egli difendeva e che nella realtà sociale non avevano
più libero accesso alle risorse dell'incolto. La
parallela conquista dell'Italia meridionale non riprodusse immediatamente
il quadro insulare e mancano notizie precise sulla caccia fino al momento
in cui non si istituzionalizzò la supremazia degli Altavilla. Non
dovrebbe comunque essere un caso se prove chiare di un'attenzione
al diritto forestale emergono solo quando a Ruggero II riuscì di
fondare in Sicilia una monarchia con una salda organizzazione
centralizzata. I
problemi sorsero immediatamente in quanto l'aumento delle «foreste»
costituiva un concreto danno per r economia tradizionale delle
regioni meridionali in cui aveva un gran peso la transumanza del bestiame. I
diritti di pascolo,benché non negati del tutto, vennero regolamentati e
limitati nello spazio e nel tempo. Certamente
molte aree vennero di fatto sottratte completamente o quasi al passaggio
delle mandrie. A
peggiorare le cose c'erano inoltre le vessazioni imposte ai pastori dai
guardiani delle foreste,gli odiatissimi forestarii. Li
sistema imposto dai normanni fu ben più duro di quelli vigenti nelle
altre regioni italiane, dove, in generale,i signori si contentarono di
veder riconosciute le loro prerogative mediante l'omaggio di alcune parti
degli animali cacciati. tuttavia
le modalità della conquista dell'Italia meridionale, portata a termine da
un gruppo di nobili fra i quali emersero gli Altavilla come primi inter
pares, determinò un'evoluzione politica che consentì all'aristocrazia il
godimento di privilegi vena tori maggiori rispetto ai colleghi inglesi. Tra
il diritto forestale inglese e meridionale sono comunque ravvisabili
parentele che fanno supporre che chi elaborò il secondo avesse, in alcuni
punti, in mente il primo. Willemsen
ricorda una norma «secondo cui in una provincia, sia che si trattasse di
foreste regie sia di foreste comitali o baronali, non potevano lavorare più
di quattro forestari». Dall'Inghilterra ci è giunta una prescrizione
analoga, e in ambedue i casi per il mancato rispetto della regola era
prevista anche la pena di morte. Purtroppo
non siamo informatimi sul sud italiano di quanto lo siamo
sull'Inghilterra. È comunque chiaro che, ovunque si siano presentati come conquistatori, i normanni, più di tutti gli altri nel medioevo, tennero a includere la caccia tra gli strumenti, atti a rendere il loro potere visibile, facendo coincidere al meglio l'esplicitazione della forza fisica del potens con quella del suo potere politico.
Fonti: Orderico Vitale, ed. 1840. Bibliografia:
Petit-Dutaillis,
1913; Queffelec, 1980; Muset,1985; Willemsen, 1987; Jeux et jouets, 1992;
GALLONI, 993. |