Nel febbraio del
58 fu promulgata la lex Clodia de capite civis Romani (che
mandava Cicerone in esilio - n.d.r.) (1). Cicerone, senz’
attenderne l’approvazione dei comizi tributi, nella notte del 20 marzo
lasciò Roma e si diresse verso la Campania. Voleva recarsi in Epiro
(ad Att. 3,1), ma poi cambiò idea e, lasciata la via Appia, si mise
sulla via Popilia che conduceva a Reggio Calabria. Nei pressi di
Nares Lucanee scrisse ad Attico
(3,2) per
informarlo del cambiato itinerario e gli dava appuntamento a Vibo
Valentia; in una successiva lettera (ad Att. 3,3), spiegava
all’amico che per motivi di sicurezza si era rifugiato a Vibo
nella casa di Sicca. Qui Cicerone venne a conoscenza della correzione
apportata da Clodio alla seconda legge che nel frattempo era stata
promulgata. Partito da Vibo alla volta di Turi,per raggiungere Brindisi
e quindi l’Oriente, durante il viaggio, verso il 13 di aprile, scrisse
una lettera ad Attico (3,4) nella quale tra l’altro gli diceva:
allata est enim nobis rogatio de pernicie mea; in qua quod correctum
esse
audieramus erat eiusmodi
ut mihi
ultra quadringenta milia liceret esse, illoc pervenire non liceret.
Statim iter Brundisium versus contuli ante diem rogationis, ne et Sicca
apud quem eram periret et quod
Melitae
esse
non licebat (2). Cicerone, male informato. parla di 400 miglia.
che per giunta calcola da Roma, ma in effetti egli era allontanato di
500 miglia dai confini d’Italia, come attesta Plutarco. (3). Ora, mentre
Cicerone era a Vibo nel fundus Siccae (4), dovette ricevere,
quantunque non ne faccia menzione nelle lettere scritte ad Attico in
questo periodo, una comunicazione: da Gaio Virgilio, pretore della
Sicilia, il quale gli faceva sapere, come attesta Plutarco (5), di
tenersi lontano dalla sua provincia. Cicerone dovette maturare l’idea di
recarsi in Sicilia durante il viaggio verso il mezzogiorno della
penisola, tant’è vero che, come abbiamo ricordato, ad un certo punto non
bene identificabile, invece di recarsi direttamente a Brindisi per
raggiungere l’Oriente, deviò verso il Bruzio ponendosi sulla via Popilia
(6). L’esule dunque, agitato da vari pensieri, depose l’idea di andare
in Oriente e decise di trovare ospitalità in Sicilia, dove era pretore
un suo amico. Quantunque questa decisione non emerga dalle lettere
inviate ad Attico, tuttavia non c’è dubbio che le cose si siano svolte
così, come del resto rilevasi sia da quanto Cicerone stesso ricorda
nell’orazione pro Plancio 95, 96, sia anche dalla testimonianza
di Plutarco (1.c.),
il quale
attribuisce all’esule il proposito di raggiungere la Sicilia appena
uscito da Roma . Ora, riprendendo il nostro ragionamento, se, come
abbiamo motivo di ritenere, Cicerone, prima di scrivere questa lettera
ad Attico, aveva ricevuto anche la comunicazione da Gaio Virgilio, a
maggior ragione, a parte il computo della distanza dall’Italia, egli
dovette rinunziare al proposito di andare in Sicilia, nella quale gli
era vietato di porre i piede. Veramente, nel passo della lettera che
stiamo esaminando. Cicerone non fa altra questione se non quella della
distanza, ma poichè lascia intendere di recarsi in oriente, dal momento
che prende la via di Brindisi, è giusto pensare che il divieto di Gaio
Virgilio era già a sua conoscenza. Suppongo che Cicerone tralasci di
ricordare esplicitamente il divieto del pretore di Sicilia, perchè egli
è tutto rivolto con la mente alla correzione della legge del tribuno.
Quando Cicerone scrive ut... illoc pervenire non liceret (7)
vuole alludere alla Sicilia e non ad altro luogo;ed è anche evidente
che, nelle righe seguenti della lettera, il pensiero
dell’esule è rivolto ad altro e che la Sicilia, tra le considerazioni
che seguono, non può essere più ricordata in quanto che l’argomento è
stato già in precedenza esaurito, sia pure con la semplice valutazione
della distanza. Nell’esame della lettera, non dobbiamo in questo momento
perdere di vista la successione logica del pensiero di Cicerone, perchè
ciò, come vedremo, ha una grande importanza ai fini della nostra
dimostrazione. A questo punto, vien fatto di domandarsi: che c’entra,
nel passo della lettera, il ricordo di Malta e quando mai Cicerone
aveva_ manifestato il proposito di rifugiarsi in quest’isola? Se
Melita fosse Malta, Cicerone avrebbe ricordato quest’isola,
logicamente, accanto alla Sicilia e non dopo altre considerazioni
statim iter Brundisium versus contuli... ne et Sicca apud quem
eram, periet et quod Melitae esse non licebat. Ma c’è da fare
un’altra importante osservazione. Malta che, come si sa, è a sud di
Pachino di circa 90 km., fu definitivamente strappata ai Cartaginesi nel
218 dal console Sempronio, il quale costrinse alla resa il presidio
cartaginese agli ordini di Amilcare (8). Da allora, quel gruppo di isole
fu annesso alla provincia di Sicilia ed il governo centrale, con sede
nel municipio di Malta, era rappresentato da un procuratore alle
dipendenze del pretore di Sicilia. In base a ciò. non può sfuggire
l’impossibilità d’identificare Melita con Malta. Ai fini del divieto
imposto a Cicerone dal pretore Gaio Virgilio, è evidente che dire
Sicilia o Malta era perfettamente la stessa cosa, dato il rapporto di
dipendenza giurisdizionale dell’isola dal pretore di Sicilia (9).
Esclusa l’identificazione di Melita con Malta per gli argomenti su
addotti, cerchiamo di identificare questo luogo. Suppongo che dovesse
trovarsi in territorio metropolitano e lontano da Vibo, come sil rileva
dal passo di Cicerone, in cui il nome di Sicca, che era a Vibo, è
posto accanto alla menzione di Melita (ne et Sicca, apud quem eram
periret, et quod Melitae esse non licebat). Ora, nei pressi
di Monteleone esiste un paese chiamato Mileto, sulle cui rovine Ruggiero
il Normanno nel 1058 fece costruire una cittadina nella quale stabilì la
sua corte (10). Questa località è vicina all’antico Hipponio, che
sovrastava all’
Ippwniàthz
kòlpoz
(Strabone 6, 266), detto dai Romani sinus Vibonensis (Plinio
n. h. 10,29). Quivi appunto nel 191 a. C. i Romani dedussero una
colonia di plebei del Lazio.
Concludendo,
dunque, Cicerone ha voluto dire ad Attico: appena che sono venuto a
conoscenza della correzione apportata da Clodio al bando per cui non
potevo, per motivi di distanza, recarmi in Sicilia, ho preso
immediatamente la via di Brindisi il giorno precedente alla votazione
della legge, sia per non mettere nei guai Sicca, che mi ospitava a suo
rischio (11), sia anche perchè a Mileto non potevo starmene nascosto in
campagna. A bene osservare il testo di Cicerone, appare chiaro che
l’esule, dopo aver liquidato con la valutazione della distanza di 400
miglia il suo progettato ritiro in Sicilia, nel successivo periodo,passa
ad un’altra serie di considerazioni, in cui il fatto che egli non
volesse generosamente mettere nei guai Sicca, dato il divieto di Clodio
di accogliere l’esule, è intimamente legato alla sua permanenza a Mileto,
cioè nel fundus Siccae, che corrisponde esattamente a (tò)
cwrìon
(12) ricordato da Plutarco.


Mileto, Mosaici romani al momento
del rinvenimento
L’Amatucci,nell’interessante
nota già ricordata, ha avuto per primo il merito di identificare Melita
con l’attuale Mileto. Il fundus Siccae, ricordato da Cicerone, è
da identificare col
cwrìon
menzionato da Plutarco. E questo fundus non era a Vibo,dove Sicca,come
attesta Plutarco,non volle accogliere l’esule per ovvie ragioni di
sicurezza, bensì in un oppidulum della valle del Mesima,
denominato sin dal sec. XIV Mellite o Melita (13). La serrata
dimostrazione dell’Amatucci,che identifica il luogo dell’Appennino
calabrese ricordato da Cicerone nella lettera in questione. è
basata su rilievi di carattere puramente topografici, che dimostrano
un‘esatta conoscenza dei luoghi percorsi da Cicerone in questo doloroso
momento della sua vita. Il Crispo (14) non condivide il punto di vista
dell’Amatucci e ritiene che Melita sia Malta, ma di questa sua
asserzione non dà una dimostrazione convincente. Certo, è naturale che,
leggendo Melita il pensiero corra a Malta, ma, in base a quanto abbiamo
detto, discutendo dei luoghi di Cicerone e di Plutarco che ricordano lo
stesso episodio, non credo che si possa agevolmente accogliere
quest’identificazione che si tramanda, a parer mio, erroneamente di
edizione in edizione (15). Io ho accolto la tesi dell’Amatucci e ad essa
ho apportato nuovi elementi per sostenerla e
-
confermarla.
Ma la questione
non è del tutto esaurita, in quanto che bisogna liberare il
terreno di una difficoltà nel testo plutarcheo. Superata questa
difficoltà, i due testi, quello di Cicerone e quello di Plutarco,
saranno perfettamente concordanti. Nel testo di Plutarco si parla di
Ouìbioz,
un
anhr
Sikelòz,
che s’era molto giovato dell’amicizia di Cicerone e che sotto il suo
consolato era stato capo dei genieri; costui non volle accogliere
l’esule nella sua casa a Vibo, ma promise di assegnargli un luogo in
campagna (oikìa
men
ouk
edéxato,
[tò]
cwrìon
de
katagràyein
epeggélleto).
Ora, Plutarco parla
di Vibio siciliano. Cicerone, nel passo della lettera, menziona invece
Sicca .E’ possibile conciliare le due testimonianze? Si deve pensare ad
una svista di Plutarco, che tramanderebbe un nome per un altro, oppure
Sicca e Vibio siciliano sono effettivamente due persone distinte? Per
spiegare questa confusione e per far concordare le due fonti sono state
avanzate delle ipotesi. Premettiamo che presso taluni si nota una certa
perplessità nel riconoscere in Vibio siciliano, che non volle accogliere
Cicerone a Vibo bensì in un
cwrìon
, lo stesso personaggio ricordato da Cicerone e che accolse
invece l’esule a Vibo. Questo dubbio è dello Smith (16), che si fa eco
di vecchi commenti. Effettivamente a prima vista, Sicca e Vibio
potrebbero sembrare due persone distinte. Ricordiamo e discutiamo alcune
opinioni di studiosi più recenti. Il Munzer (17), nell’articolo su Sicca,
afferma, sia pure con riserva, che “ Sicca sia diventato un uomo
siciliano può ben essere ammesso, tanto più che si parla (in Plutarco)
della proibizione del governatore di Sicilia per cui Cicerone non poteva
porre il piede nell’isola”. A questa stravagante supposizione, aggiunge
ancora il Munzer, “ resta incerto se Vibius sia derivato da un
prenome o nome gentilizio ovvero- da un malinteso del nome della città
di Vibo “. Ma come si
può dubitare che Vibius non sia il nome di una gens?
D’altra parte, l’aggettivo di Vibo è Vibonensis e non Vibius. Non sfugge che le spiegazioni addotte dal Munzer sono tortuose e
difficilmente accettabili. Rimane da spiegare che Sicca non è mai
presentato da Cicerone sotto Vibio Sicca ed inoltre che Vibio, cavaliere
romano, secondo Cicerone (cft. Verr. 2,6), è presentato da
Plutarco come un siciliano. Il Crispo, ad un bel momento del suo articolo, identifica
Sicca, ricordato varie volte da Cicerone nell’epistolario, ma sempre
senza alcuna indicazione di casato, con Lucio Vibio cavaliere romano,
che era direttore di una società di publicani a Siracusa quando
Cicerone lo conobbe in Sicilia nel 71.
Secondo il Crispo, Vibio, ricordato da
Plutarco come siciliano, “apparteneva a quei patrizi romani che facevano
lunghe dimore in Sicilia per attendere ad industrie agricole, a
commerci o ad altri lucrosi affari “ . Egli “ come tanti altri patrizi
romani, aveva un luogo di delizie nello ameno suburbio vibonense, in
prossimità dello scalo marittimo ” (18). L’identificazione dei due
personaggi è parsa al Crispo naturalissima. La questione è posta su un
piano di discussione ben più seria da Tyrrel e Purser (19). i quali
pensano ad una confusione operata da Plutarco: “This looks very like as
if Plutarch has misinterpreted Sicca Vib (onensis), wich he may have
found in some autority as a Sicilian Vibius “. Questa supposizione ha il
pregio di spiegare, con un attendibile dato di fatto, come fu ingenerata
in Plutarco la confusione tra Sicca e Vibio.
In effetti,
tutte queste ipotesi non hanno nessun valore perchè derivano da un testo
di Plutarco che attualmente può considerarsi superato.
Gli antichi
editori, ed in ultimo il Sintenis, dopo
anhr
pongono
Sikelòz,
sull’autorità dei quattro codici Parigini (A 1671, B 1672, C 1673, E
16751), collazionati appunto per ultimo dal Sintenis. Questi codd.
contengono le vite plutarchee divise in tre volumi e sono designati,
nella edizione di Lindskog-Ziegler con la sigla Y (20). Ora, bisogna
osservare che il Matritensis del sec. XIV ed il Vaticanus
138, gemello del precedente, designati entrambi dallo Ziegler con la sig!a
N, non hanno la parola
Sikelòz.
Il
Matritensis, come già sostenne il Craux (21), e più recentemente ha
affermato lo Ziegler stesso (22). ha una grande importanza nella
costituzione del testo delle vite sia di Cicerone che di Demostene. Non
è improbabile pensare che la parola
Sikelòz
inserita dopo ‘an¢hr
nei codd. parigini, provenga da una cattiva lettura
Sìkkaz
(scritta al margine di qualche vecchio esemplare e successivamente
entrato nel testo. Chi scrisse
Sìkkaz
sull’autorità di Cicerone (ad Att. 3, 2, 4), volle,
evidentemente, indicare che il personaggio
Ouìbioz,
ricordato da Plutarco, era da identificare con Sicca, ricordato da
Cicerone (23). L’errore dunque non rimonterebbe a Plutarco il quale,
d’altra parte, è autore di non poche sviste e confusioni che si leggono
nella vita di Cicerone da lui scritta (24). Si potrebbe anche avanzare
quest’altra ipotesi e cioè che, al margine di qualche vecchio esemplare,
fu scritto da un lettore direttamente
Sikelòz
e che poi questa parola fu inserita
nel testo. In
questa seconda ipotesi,chi scrisse
Sikelòz
volle designare, ovvero credette di designare la patria di Vibio che
egli erroneamente pensò che fosse stato un siciliano,probabilmente
perchè Cicerone lo conobbe in Sicilia nel 71, come si ricava dalla
Verrina 2, 2, 6. Non saprei dire se questa mia ipotesi sia da
preferirsi a quella precedente avanzata dal Graux e sostenuta
dallo Ziegler. Comunque, fanno bene questi due editori della vita di
Cicerone ad espungere dal testo plutarcheo la parola
Sikelòz.
Eliminata dunque dal testo la inserzione di una nota marginale,
probablmente mal letta e che ha provocato un errore paleograficamente
giustificabile, rimane questo di sicuro, che mentre Cicerone,
confidenzialmente, come del resto fa anche in altre lettere, designò
l’amico col semplice nome Sicca, Plutarco, invece ricordò lo stesso
personaggio con il nome gentilizio Vibio, plebeo in verità e di origine
sabellica. La dimostrata identificazione fa cadere ogni difficoltà
d’interpretazione e le ipotesi, formulate dagli studiosi (Munzer,
Crispo ecc.), per dare una soluziomie alla intricata questione, appaiono
del tutto inutili di fronte al testo di Plutarco, costituito
sull’autorità di due codici fondamentali.
Rimane ora
un’altra cosa da spiegare. Per qual motivo Plutarco designa il
personaggio Vibio col nome della gens mentre Cicerone, tranne che
nel luogo ricordato della Verrina 2, 2, 6, lo designa sette volte
nell’epistolario (26) col semplice cognomen? Questo dipende,
evidentemente,dalla fonte che Plutarco adoperò. Nel narrare gli episodi
compresi tra il consolato di Cicerone ed il secondo triumvirato, si
ritiene che
-
Plutarco non abbia attinto, eccezion fatta, com’io suppongo, di un luogo
dell’orazione pro Plancio 95, 96, ad altra fonte se non a Tirone che
scrisse una vita di Cicerone (27). Quest’opera, ricca di particolari del
fidato liberto. dovette essere la principale guida di Plutarco.
(
In” Giornale italiano di filologia”, AA.VV. ,1952, n. 1, pp. 56-62)
Note
(1) Cfr. de domo 18, 47:
velitis iubeatis ut Marco Tullio aqua et igni interdictum sit. Cfr.
inoltre Vell. Pat. 2, 45; App. b. c. 2. 15; Cassio Dione 38,
14-17: Cic. pro Sextio 24, 53; in Pis. 7; post rediturn in
sen. 2, 4; de domo 19, 50.
(2) Cito il testo secondo
l’edizione di CONSTANS, Paris 1941 vol. II pag. 30, 31. Lo stesso brano
nell’edizione di TYRREL-PURSER, Dublin 1904 vol. 1 pag. 359. suona così: adlata est ,nobis rogatio de pernicie mea, in qua quod
correctum esse audieramus erat eiusmodi ut mihi ultra quingenta
milia liceret esse. Illo cum pervenire nobis non liceret, statim
iter Brundisium versus contuli ante diem rogationis ne et Sicca,
apud qaem eram, periret et quod Melitae esse non licebat. Non mi
pare che si possa accettare quingenta, che è del Boor Obs.
crit. p. 46, in base a Plutarco Cic. 31 e Cassio Dione 38,
7, invece di quadringenta dei codd. In effetti, solo dopo
Cicerone conobbe i termini del bando, come si rileva dalla lettera ad
Attico 3, 7, 1:
et veremur ne interpretetur
illud - quoque oppidum (sc. Athenas) ab Italia non
satis abesse.
(3) Cic. 32
... ò Klòdioz, kaì diàgramma proùJhken eìrgein puròz kaì
ùdatoz tòn andra kaì mh parècein stéghn entoz miliwn
pentakosìwn Italìaz.
Cassio Dione computa la distanza da
Roma in 3750 stadi che corrispondono a 500 miglia, giacchè il miglio
romano è pari a stadi 7 ½ . La testimonianza di Plutarco concorda con
quanto Cicerone stesso afferma nella lettera ad Attico 3, 7, 1.
(4) Dell’esatta ubicazione del
Fundus Siccae si sono interessati l’Amatucci: “ Di un luogodell’epistola
IV lib. III di Cicerone ad Atticum e d’un Oppidulum dei Bruttii in rend.
Della R. Acc. Di Arch. – lett. e belle arti 1898 pp. 131-137, ed il
Crispo “ I viaggi di M. T. Cicerone a Vibo in Archivio storico
per la Calabria e la Lucania, 1941 fasc. III p. 183 e seg.
(5) L. c.
(6) I dettagli del viaggio di
Cicerone non sono chiari.
Dice bene M. C. SMITH Cicero’s journey into exile, in Harward Studies vol. VII
p. 71.84: “ circumtances connected with Cicero’s departure into exile
until he left Italy are tolerably well accertauned in their main
ortlines: but there are some points of details wich remain doubtfull “.
(7) Quest’avverbio (altri leggono illo, illuc o correggono diversamente) è interpetato in
vario modo. lo credo che si debba intendere “in Sicilia”. In questo,
seguo il BOOR (o. c. p. 46): “ in Siciliam quae regatione Clodii erat
excepta ut tradit Dio 1. c. : kaì Sikelìa”
. Dello stesso avviso è lo Smith (o. c. p. 83), il quale, trovando
strano che Cicerone nella lettera non abbia ricordato il divieto di Gaio
Virgilio, congettura che “ a clause dras dropped out before illo,
something of this natere simul litterae a Virgilio nostro quibus
significahat se nolle me in Sicilia esse. Illo cum pervenire non liceret...
“. Ma questa è
un’arbitraria ricostruzione. Il testo nei codd. è tramandato con leggere
varianti. Per Tyrrel e Purser (o. c. p. 435) illo
significa “ to Epirus”. Tralascio di ricordare altre correzioni al testo
che mi sembrano inutili e inaccettabili.
(8) Cfr. Livio 21, 51.
( 9) Dicono Tyrrel e Purser (o. c.
p. 432) che Gaio Virgilio, sebbene amico di Cicerone, non volle
ammettere l’esule nella sua provincia perchè, in qualità di pubblico
ufficiale, non credette di assumersi la responsabilità (
admitting him, to the province of Sicily, or to its adjunct Malta (cfr. pro Plancio 95, 96: Plut. l.c.) . Così anche scrive il Constans
(1. c. p. 15): “ en meme temps, il
receivait de C. Vergilius une lettre par la quelle celui-ci se refusait
a l’accuellir en Sicile ou à Malte ”, e rimanda in nota al luogo
su citato dell’orazione pro Plancio.
Ma quando mai
Plutarco e Cicerone, nel luogo dell’orazione ricordano l’isola di Malta?
Si fa menzione soltanto del divieto per l’esule di recarsi in Sicilia, e
non d’altro. Ora, probabilmente, se Cicerone ricorda, nel luogo
dell’orazione, la Sicilia, avrebbe ricordato esplicitamente anche Malta,
se Melita fosse stata quest’isola. Quale ragione vi sarebbe stata di
passarla sotto silenzio ?
(10) L’origine di Mileto si fa
risalire ai Milesii della Ionia; cfr. Barrius “ De antiquitate et
situ Calabriae” Romae 1571. Questa tradizione è raccolta dagli
studiosi locali, ad eccezione del CAPIALBI “ Topografia d’Ipponio
in Memoria d. Ist. Di corr. Archeolog. 132 p. 159 e seg. . Il LENORMANT “La
Grande Grèce Paris” 1881 vol. III p. 256 e seg. ha
sostenuto che il nome della città di Mileto non risale al di là del X
sec, e che fu importato da Bizantini da Mileto d’Asia, clic si
stanziarono in vari punti della Calabria. Ma questa è un’ipotesi da
dimostrare. Non trovo notizie storico-archeologiclìe in N. TACCONE
GALLUCCI “Ricordi storici dell’antica Mileto Bologna 1866 né in
C. NACCARI Cenni storici intorno alla città di Mileto, Laureana
di Borrello, 1931.
(11) Cfr. Cassio Dione 38, 17, 7:
kaì
prosepekhrùcJh in’ ei’ dh¢ pote entòz autwn janeìh, kaì autòz oì upodexàmenoi autòn anatì
diolwntai .
(12) L’articolo
tò
del Korais (1809) che corresse con acume il testo di Plutarco.
Evidententemente, l’editore fu indotto a preporre l’articolo
all’indeterminato e semplice
cwrìon
, dallo specifico riferimento al
fundus Siccae, ricordato da Cicerone.
(13) L’AMATUCCI ricorda (o. c. p.
135) che alle rovine di quest’oppidulum una gentile poetessa
calabrese, Edvige Pittarelli (nata in Francica il 1482 e morta dopo il
1554), dedicò un’elegia dal titolo “de ruinis Francicae, olim Mellite
vocata “.
(14) 0. c. p. 194 nota 1, afferma
che “ l’opinione dell’Amatucci... è fondata su errori topografici
essenziali e su apocrifi mantoscritti dei sec. XVII e XVIII. Nei
documenti nmedioevali Mileto non è mai chiamata Melita... .