MALTA O MILETO

 

(sull’interpretazione di un luogo di Cicerone -lett. ad Attico 3.4)

di Guido Carugno

 

Nel febbraio del 58 fu promulgata la lex Clodia de capite civis Romani    (che mandava Cicerone in esilio - n.d.r.) (1). Cicerone, senz’ attenderne l’approvazione dei comizi tributi, nella notte del 20 marzo lasciò Roma e si diresse verso la Campania. Voleva recarsi in Epiro (ad Att. 3,1), ma poi cambiò idea e, lasciata la via Appia, si mise sulla via Popilia che conduceva a Reggio Calabria. Nei pressi di Nares Lucanee scrisse ad Attico (3,2) per informarlo del cambiato itinerario e gli dava appuntamento a Vibo Valentia; in una successiva lettera (ad Att. 3,3), spiegava all’amico che per motivi di sicurezza si era rifugiato a Vibo nella casa di Sicca. Qui Cicerone venne a conoscenza della correzione apportata da Clodio alla seconda legge che nel frattempo era stata promulgata. Partito da Vibo alla volta di Turi,per raggiungere Brindisi e quindi l’Oriente, durante il viaggio, verso il 13 di aprile, scrisse una lettera ad Attico (3,4) nella quale tra l’altro gli diceva: allata est enim nobis rogatio de pernicie mea; in qua quod correctum esse audieramus erat eiusmodi ut mihi ultra quadringenta milia liceret esse, illoc pervenire non liceret. Statim iter Brundisium versus contuli ante diem rogationis, ne et Sicca apud quem eram periret et quod Melitae esse non licebat (2). Cicerone, male informato. parla di 400 miglia. che per giunta calcola da Roma, ma in effetti egli era allontanato di 500 miglia dai confini d’Italia, come attesta Plutarco. (3). Ora, mentre Cicerone era a Vibo nel fundus Siccae (4), dovette ricevere, quantunque non ne faccia menzione nelle lettere scritte ad Attico in questo periodo, una comunicazione: da Gaio Virgilio, pretore della Sicilia, il quale gli faceva sapere, come attesta Plutarco (5), di tenersi lontano dalla sua provincia. Cicerone dovette maturare l’idea di recarsi in Sicilia durante il viaggio verso il mezzogiorno della penisola, tant’è vero che, come abbiamo ricordato, ad un certo punto non bene identificabile, invece di recarsi direttamente a Brindisi per raggiungere l’Oriente, deviò verso il Bruzio ponendosi sulla via Popilia (6). L’esule dunque, agitato da vari pensieri, depose l’idea di andare in Oriente e decise di trovare ospitalità in Sicilia, dove era pretore un suo amico. Quantunque questa decisione non emerga dalle lettere inviate ad Attico, tuttavia non c’è dubbio che le cose si siano svolte così, come del resto rilevasi sia da quanto Cicerone stesso ricorda nell’orazione pro Plancio 95, 96, sia anche dalla testimonianza di Plutarco (1.c.), il quale attribuisce all’esule il proposito di raggiungere la  Sicilia appena uscito da Roma . Ora, riprendendo il nostro ragionamento, se, come abbiamo motivo di ritenere, Cicerone, prima di scrivere questa lettera ad Attico, aveva ricevuto anche la comunicazione da Gaio Virgilio, a maggior ragione, a parte il computo della distanza dall’Italia, egli dovette rinunziare al proposito di andare in Sicilia, nella quale gli era vietato di porre i piede. Veramente, nel passo della lettera che stiamo esaminando. Cicerone non fa altra questione se non quella della distanza, ma poichè lascia intendere di recarsi in oriente, dal momento che prende la via di Brindisi, è giusto pensare che il divieto di Gaio Virgilio era già a sua conoscenza. Suppongo che Cicerone tralasci di ricordare esplicitamente il divieto del pretore di Sicilia, perchè egli è tutto rivolto con la mente alla correzione della legge del tribuno. Quando Cicerone scrive ut... illoc pervenire non liceret (7) vuole alludere alla Sicilia e non ad altro luogo;ed è anche evidente che, nelle righe seguenti della lettera, il pensiero dell’esule è rivolto ad altro e che la Sicilia, tra le considerazioni che seguono, non può essere più ricordata in quanto che l’argomento è stato già in precedenza esaurito, sia pure con la semplice valutazione della distanza. Nell’esame della lettera, non dobbiamo in questo momento perdere di vista la successione logica del pensiero di Cicerone, perchè ciò, come vedremo, ha una grande importanza ai fini della nostra dimostrazione. A questo punto, vien fatto di domandarsi: che c’entra, nel passo della lettera, il ricordo di Malta e quando mai Cicerone aveva_ manifestato il proposito di rifugiarsi in quest’isola? Se Melita fosse Malta, Cicerone avrebbe ricordato quest’isola, logicamente, accanto alla Sicilia e non dopo altre considerazioni statim iter Brundisium versus contuli... ne et Sicca apud quem eram, periet et  quod Melitae esse non licebat. Ma c’è da fare un’altra importante osservazione. Malta che, come si sa, è a sud di Pachino di circa 90 km., fu definitivamente strappata ai Cartaginesi nel 218 dal console Sempronio, il quale costrinse alla resa il presidio cartaginese agli ordini di Amilcare (8). Da allora, quel gruppo di isole fu annesso alla provincia di Sicilia ed il governo centrale, con sede nel municipio di Malta, era rappresentato da un procuratore alle dipendenze del pretore di Sicilia. In base a ciò. non può sfuggire l’impossibilità d’identificare Melita con Malta. Ai fini del divieto imposto a Cicerone dal pretore Gaio Virgilio, è evidente che dire Sicilia o Malta era perfettamente la stessa cosa, dato il rapporto di dipendenza giurisdizionale dell’isola dal pretore di Sicilia (9). Esclusa l’identificazione di Melita con Malta per gli argomenti su addotti, cerchiamo di identificare questo luogo. Suppongo che dovesse trovarsi in territorio metropolitano e lontano da Vibo, come sil rileva dal passo di    Cicerone, in cui il nome di Sicca, che era a Vibo, è posto accanto alla menzione di Melita (ne et Sicca, apud quem eram periret, et quod Melitae esse non licebat). Ora, nei pressi di Monteleone esiste un paese chiamato Mileto, sulle cui rovine Ruggiero il Normanno nel 1058 fece costruire una cittadina nella quale stabilì la sua corte (10). Questa località è vicina all’antico Hipponio, che sovrastava all’ Ippwniàthz  kòlpoz (Strabone 6, 266), detto dai Romani sinus Vibonensis (Plinio n. h. 10,29). Quivi appunto nel 191 a. C. i Romani dedussero una colonia di plebei del Lazio.

 

Concludendo, dunque, Cicerone ha voluto dire ad Attico: appena che sono venuto a conoscenza della correzione apportata da Clodio al bando per cui non potevo, per motivi di distanza, recarmi in Sicilia, ho preso immediatamente la via di Brindisi il giorno precedente alla votazione della legge, sia per non mettere nei guai Sicca, che mi ospitava a suo rischio (11), sia anche perchè a Mileto non potevo starmene nascosto in campagna. A bene osservare il testo di Cicerone, appare chiaro che l’esule, dopo aver liquidato con la valutazione della distanza di 400 miglia il suo progettato ritiro in Sicilia, nel successivo periodo,passa ad un’altra serie di considerazioni, in cui il fatto che egli non volesse generosamente mettere nei guai Sicca, dato il divieto di Clodio di accogliere l’esule, è intimamente legato alla sua permanenza a Mileto, cioè nel fundus Siccae, che corrisponde esattamente a (tò) cwrìon  (12) ricordato da Plutarco.

Mileto, Mosaici romani al momento del rinvenimento

L’Amatucci,nell’interessante nota già ricordata, ha avuto per primo il merito di identificare Melita con l’attuale Mileto. Il fundus Siccae, ricordato da Cicerone, è da identificare col cwrìon  menzionato da Plutarco. E questo fundus non era a Vibo,dove Sicca,come attesta Plutarco,non volle accogliere l’esule per ovvie ragioni di sicurezza, bensì in un oppidulum della valle del Mesima, denominato sin dal sec. XIV Mellite o Melita (13). La serrata dimostrazione dell’Amatucci,che identifica il luogo dell’Appennino calabrese ricordato da Cicerone nella lettera in questione. è basata su rilievi di carattere puramente topografici, che dimostrano un‘esatta conoscenza dei luoghi percorsi da Cicerone in questo doloroso momento della sua vita. Il Crispo (14) non condivide il punto di vista dell’Amatucci e ritiene che Melita sia Malta, ma di questa sua asserzione non dà una dimostrazione convincente. Certo, è naturale che, leggendo Melita il pensiero corra a Malta, ma, in base a quanto abbiamo detto, discutendo dei luoghi di Cicerone e di Plutarco che ricordano lo stesso episodio, non credo che si possa agevolmente accogliere quest’identificazione che si tramanda, a parer mio, erroneamente di edizione in edizione (15). Io ho accolto la tesi dell’Amatucci e ad essa ho apportato nuovi elementi per sostenerla e - confermarla.

Ma la questione non è del tutto esaurita, in quanto che bisogna liberare il terreno di una difficoltà nel testo plutarcheo. Superata questa difficoltà, i due testi, quello di Cicerone e quello di Plutarco, saranno perfettamente concordanti. Nel testo di Plutarco si parla di Ouìbioz, un anhr Sikelòz, che s’era molto giovato dell’amicizia di Cicerone e che sotto il suo consolato era stato capo dei genieri; costui non volle accogliere l’esule nella sua casa a Vibo, ma promise di assegnargli un luogo in campagna (oikìa  men ouk edéxato, [tò] cwrìon de katagràyein epeggélleto).

Ora, Plutarco parla di Vibio siciliano. Cicerone, nel passo della lettera, menziona invece Sicca .E’ possibile conciliare le due testimonianze? Si deve pensare ad una svista di Plutarco, che tramanderebbe un nome per un altro, oppure Sicca e Vibio siciliano sono effettivamente due persone distinte? Per spiegare questa confusione e per far concordare le due fonti sono state avanzate delle ipotesi. Premettiamo che presso taluni si nota una certa perplessità nel riconoscere in Vibio siciliano, che non volle accogliere Cicerone a Vibo bensì in un cwrìon ,  lo stesso personaggio ricordato da Cicerone e che accolse invece l’esule a Vibo. Questo dubbio è dello Smith (16), che si fa eco di vecchi commenti. Effettivamente a prima vista, Sicca e Vibio potrebbero sembrare due persone distinte. Ricordiamo e discutiamo alcune opinioni di studiosi più recenti. Il Munzer (17), nell’articolo su Sicca, afferma, sia pure con riserva, che “ Sicca sia diventato un uomo siciliano può ben essere ammesso, tanto più che si parla (in Plutarco) della proibizione del governatore di Sicilia per cui Cicerone non poteva porre il piede nell’isola”. A questa stravagante supposizione, aggiunge ancora il Munzer, “ resta incerto se Vibius sia derivato da un prenome o nome gentilizio ovvero- da un malinteso del nome della città di Vibo “. Ma come si può dubitare che Vibius non sia il nome di una gens? D’altra parte, l’aggettivo di Vibo è Vibonensis e non Vibius. Non sfugge che le spiegazioni addotte dal Munzer sono tortuose e difficilmente accettabili. Rimane da spiegare che Sicca non è mai presentato da Cicerone sotto Vibio Sicca ed inoltre che Vibio, cavaliere romano, secondo Cicerone (cft. Verr. 2,6), è presentato da Plutarco come un siciliano. Il Crispo, ad un bel momento del suo articolo, identifica Sicca, ricordato varie volte da Cicerone nell’epistolario, ma sempre senza alcuna indicazione di casato, con Lucio Vibio cavaliere romano, che era direttore di una società di  publicani a Siracusa quando Cicerone lo conobbe in Sicilia nel 71.

Secondo il Crispo, Vibio, ricordato da Plutarco come siciliano, “apparteneva a quei patrizi romani che facevano lunghe dimore in  Sicilia per attendere ad industrie agricole, a commerci o ad altri lucrosi affari “ . Egli “ come tanti altri patrizi romani, aveva un luogo di delizie nello ameno suburbio vibonense, in prossimità  dello scalo marittimo ” (18). L’identificazione dei due personaggi è parsa al Crispo naturalissima. La questione è posta su un piano di discussione ben più seria da Tyrrel e Purser (19). i quali pensano ad una confusione operata da Plutarco: “This looks very like as if Plutarch has misinterpreted Sicca Vib (onensis), wich he may have found in some autority as a Sicilian Vibius “. Questa supposizione ha il pregio di spiegare, con un attendibile dato di fatto, come fu ingenerata in Plutarco la confusione tra Sicca e Vibio.

In effetti, tutte queste ipotesi non hanno nessun valore perchè derivano da un testo di Plutarco che attualmente può considerarsi superato.

Gli antichi editori, ed in ultimo il Sintenis, dopo  anhr pongono Sikelòz, sull’autorità dei quattro codici Parigini (A 1671, B 1672, C 1673, E 16751), collazionati appunto per ultimo dal Sintenis. Questi codd. contengono le vite plutarchee divise in tre volumi e sono designati, nella edizione di Lindskog-Ziegler con la sigla Y (20). Ora, bisogna osservare che il Matritensis del sec. XIV ed il Vaticanus 138, gemello del precedente, designati entrambi dallo Ziegler con la sig!a N, non hanno la parola Sikelòz.

Il   Matritensis, come già sostenne il Craux (21), e più recentemente ha affermato lo Ziegler stesso (22). ha una grande importanza nella costituzione del testo delle vite sia di Cicerone che di Demostene. Non è improbabile pensare che la parola Sikelòz inserita dopo  ‘an¢hr     nei codd. parigini, provenga da una cattiva lettura Sìkkaz (scritta al margine di qualche vecchio esemplare e successivamente entrato nel testo. Chi scrisse  Sìkkaz sull’autorità di Cicerone (ad Att. 3, 2, 4), volle, evidentemente, indicare che il personaggio  Ouìbioz,  ricordato da Plutarco, era da identificare con Sicca, ricordato da Cicerone (23). L’errore dunque non rimonterebbe a Plutarco il quale, d’altra parte, è autore di non poche sviste e confusioni che si leggono nella vita di Cicerone da lui scritta (24). Si potrebbe anche avanzare quest’altra ipotesi e cioè che, al margine di qualche vecchio esemplare, fu scritto da un lettore direttamente Sikelòz e che poi questa parola fu inserita

nel testo. In questa seconda ipotesi,chi scrisse Sikelòz  volle designare, ovvero credette di designare la patria di Vibio che egli erroneamente pensò che fosse stato un siciliano,probabilmente perchè Cicerone lo conobbe in Sicilia nel 71, come si ricava dalla Verrina 2, 2, 6. Non saprei dire se questa mia ipotesi sia da preferirsi a quella precedente avanzata dal Graux e sostenuta dallo Ziegler. Comunque, fanno bene questi due editori della vita di Cicerone ad espungere dal testo plutarcheo la parola Sikelòz. Eliminata dunque dal testo la inserzione di  una nota marginale, probablmente mal letta e che ha provocato un errore paleograficamente giustificabile, rimane questo di sicuro, che mentre Cicerone, confidenzialmente, come del resto fa anche in altre lettere, designò l’amico col semplice nome Sicca, Plutarco, invece ricordò lo stesso personaggio con il nome gentilizio Vibio, plebeo in verità  e di origine sabellica. La dimostrata identificazione fa cadere ogni difficoltà d’interpretazione e  le ipotesi, formulate dagli studiosi (Munzer, Crispo ecc.), per dare una soluziomie alla intricata questione, appaiono del tutto inutili di fronte al testo di Plutarco, costituito sull’autorità di due codici fondamentali.

Rimane ora un’altra cosa da spiegare. Per qual motivo Plutarco designa il personaggio Vibio col nome della gens mentre Cicerone, tranne che nel luogo ricordato della Verrina 2, 2, 6, lo designa sette volte nell’epistolario (26) col semplice cognomen? Questo dipende, evidentemente,dalla fonte che Plutarco adoperò. Nel narrare gli episodi compresi tra il consolato di Cicerone ed il secondo triumvirato, si ritiene che - Plutarco non abbia attinto, eccezion fatta, com’io suppongo, di un luogo dell’orazione pro Plancio 95, 96, ad altra fonte se non a Tirone che scrisse una vita di Cicerone (27). Quest’opera, ricca di particolari del fidato liberto. dovette essere la principale  guida di Plutarco.

 ( In” Giornale italiano di filologia”, AA.VV. ,1952, n. 1, pp. 56-62)

Note

(1)  Cfr. de domo 18, 47: velitis iubeatis ut Marco Tullio aqua et igni interdictum sit. Cfr. inoltre Vell. Pat. 2, 45; App. b. c. 2. 15; Cassio Dione 38, 14-17: Cic. pro Sextio 24, 53; in Pis. 7; post rediturn in sen. 2, 4; de domo 19, 50.

(2)   Cito il testo secondo l’edizione di CONSTANS, Paris 1941 vol. II pag. 30, 31. Lo stesso brano nell’edizione di TYRREL-PURSER, Dublin 1904 vol. 1 pag. 359. suona così: adlata est ,nobis rogatio de pernicie mea, in qua quod correctum  esse audieramus erat eiusmodi ut mihi ultra quingenta milia liceret esse. Illo cum  pervenire nobis non liceret, statim iter Brundisium versus  contuli ante diem rogationis ne et Sicca, apud qaem eram, periret et quod Melitae esse non licebat. Non mi pare che si possa accettare quingenta, che è del Boor Obs. crit. p. 46, in base a Plutarco Cic. 31 e Cassio Dione 38, 7, invece di quadringenta dei codd. In effetti, solo dopo Cicerone conobbe i termini del bando, come si rileva dalla lettera ad Attico 3, 7, 1:

et veremur ne interpretetur illud - quoque oppidum (sc. Athenas) ab Italia non satis  abesse.

(3)  Cic. 32 ... ò Klòdioz,  kaì  diàgramma   proùJhken  eìrgein puròz  kaì

ùdatoz  tòn andra   kaì  mh parècein stéghn  entoz  miliwn  pentakosìwn Italìaz.

Cassio Dione computa la distanza da Roma in 3750 stadi che corrispondono a 500 miglia, giacchè il miglio romano è pari a stadi 7 ½ . La testimonianza di Plutarco concorda con quanto Cicerone stesso afferma nella lettera ad Attico 3, 7, 1.

(4)  Dell’esatta ubicazione del Fundus Siccae si sono interessati l’Amatucci: “ Di un luogodell’epistola IV lib. III di Cicerone ad Atticum e d’un Oppidulum dei Bruttii in rend. Della R. Acc. Di Arch. – lett. e belle arti 1898 pp. 131-137, ed il Crispo “ I viaggi di M. T. Cicerone a Vibo in Archivio storico per la Calabria e la Lucania,  1941 fasc. III p. 183 e seg.

(5)  L. c.

(6)  I dettagli del viaggio di Cicerone non sono chiari. Dice bene M. C. SMITH Cicero’s journey into exile, in Harward Studies vol. VII p. 71.84: “ circumtances connected with Cicero’s departure into exile until he left Italy are tolerably well accertauned in their main ortlines: but there are some points of details wich remain doubtfull “.

  (7)  Quest’avverbio (altri leggono illo, illuc o correggono diversamente) è interpetato in vario modo. lo credo che si debba intendere “in Sicilia”. In questo, seguo il BOOR (o. c. p. 46): “ in Siciliam quae regatione Clodii erat excepta ut tradit Dio 1. c. :  kaì Sikelìa” . Dello stesso avviso è lo Smith (o. c. p. 83), il quale, trovando strano che Cicerone nella lettera non abbia ricordato il divieto di Gaio Virgilio,  congettura che  “ a clause dras dropped out before illo, something of this natere simul  litterae a Virgilio nostro quibus significahat se nolle me in Sicilia esse. Illo cum pervenire non liceret... “. Ma questa è un’arbitraria ricostruzione. Il testo nei codd. è tramandato con leggere varianti. Per Tyrrel e Purser (o. c. p. 435) illo significa “ to Epirus”. Tralascio di ricordare altre correzioni al testo che mi  sembrano inutili e inaccettabili.

(8) Cfr. Livio 21, 51.

( 9) Dicono Tyrrel e Purser (o. c. p. 432) che Gaio Virgilio, sebbene amico di Cicerone, non volle ammettere l’esule nella sua provincia perchè, in qualità di pubblico ufficiale, non credette di  assumersi la responsabilità ( admitting him, to the province of Sicily, or to its adjunct Malta (cfr. pro Plancio 95, 96: Plut. l.c.) . Così anche scrive il Constans (1. c. p. 15):  “ en meme temps, il receivait de C. Vergilius une lettre par la quelle celui-ci se refusait a l’accuellir en Sicile ou à Malte ”, e rimanda in nota al luogo su citato dell’orazione pro Plancio.

Ma quando mai Plutarco e Cicerone, nel luogo dell’orazione ricordano l’isola di Malta? Si fa menzione soltanto del divieto per l’esule di recarsi in Sicilia, e non d’altro. Ora, probabilmente, se Cicerone ricorda, nel luogo dell’orazione, la Sicilia, avrebbe ricordato esplicitamente anche Malta, se Melita fosse stata quest’isola. Quale ragione vi sarebbe stata di passarla sotto silenzio ?

(10) L’origine di Mileto si fa risalire ai Milesii della Ionia; cfr. Barrius “ De antiquitate et situ Calabriae” Romae 1571. Questa tradizione è  raccolta dagli studiosi locali, ad eccezione del CAPIALBI “ Topografia d’Ipponio in Memoria d. Ist. Di corr. Archeolog. 132 p. 159 e seg. . Il LENORMANT “La Grande Grèce Paris” 1881 vol. III p. 256 e seg. ha sostenuto che il nome della città di Mileto non risale al di là del X sec, e che fu importato da Bizantini da Mileto d’Asia, clic si stanziarono in vari punti della  Calabria. Ma questa è un’ipotesi da dimostrare. Non trovo notizie storico-archeologiclìe in N. TACCONE GALLUCCI “Ricordi storici dell’antica Mileto Bologna 1866 né in C. NACCARI Cenni storici intorno alla città di Mileto, Laureana di Borrello, 1931.

(11) Cfr. Cassio Dione 38, 17, 7: kaì  prosepekhrùcJh in’ ei’  dh¢  pote  entòz  autwn janeìh, kaì  autòz  oì  upodexàmenoi  autòn anatì  diolwntai .

(12) L’articolo tò del Korais (1809) che corresse con acume il testo di Plutarco. Evidententemente, l’editore fu indotto a preporre l’articolo all’indeterminato e semplice cwrìon , dallo specifico riferimento al fundus Siccae, ricordato da Cicerone.

(13) L’AMATUCCI ricorda (o. c. p. 135) che alle rovine di quest’oppidulum una gentile poetessa calabrese, Edvige Pittarelli (nata in Francica il 1482 e morta dopo il 1554), dedicò un’elegia dal titolo  “de ruinis Francicae, olim Mellite vocata “.

(14) 0. c. p. 194 nota 1, afferma che “ l’opinione dell’Amatucci... è fondata su errori topografici essenziali e su apocrifi mantoscritti dei sec. XVII e XVIII. Nei documenti nmedioevali Mileto non è mai chiamata Melita... .

(15) 1 biografi e i commentatori di Cicerone, almeno quelli che ricordano ciò, interpretano concordemente Melita per Malta. Nell’edizione di Tyrrel e Purser (ad locum) non si legge nulla in merito a questo problema, eppure a pag. 351 e -seg. in un excursus si discute, con una certa ampiezza, sul decreto di Clodio, sulle tappe dellesilio ecc. Forse, il problema ermeneutico di questo passo non è stato mai posto giacchè è sembrata la cosa più naturale  identificare Melita con Malta, senza riflettere, a mio avviso, all’impossibilità di questa interpretazione.

(16) Cfr. Dictionary of Greek and Roman biography and mithology, London 1867,vol. III pag. 815.      -

       (17) PAÙLY-WISSOWA      lI   A 1923  p.            2186.

      (18) O. c. p. 187.

(19)  0. c. p. 191

 (20) Plutarchi vitae parallelae voll. 4, Lipsia 1914-1939.

(21) De Plutarchi codice manu scr. Matritensi iniuria neglecto in Revue de phil. N.s. . V (1881) p. I e seg.

(22) Plutarchstudien in Rhein. Mus. 68 (1913) p. 97 e seg. sul cod. Matritensis cfr. Th. Michaelis “ De Plutarchi cod. manuscr. Matritensi Berlin 1899.

(23) Cfr. Graux “ Plutarque”,Vie de Cicéron Paris 1889, p.137 nota 1.

    (24)    Cfr. l’introduzione del Graux alla vita di  Cicerone da lui commentata. Di un certo interesse è anche lo studio del D’APPOZIO “Quatenus Plutarchus in rebus Ciceronis narrandis eius scriptis usus sit “   in Atti della reale Accademia Pontoniana di Napoli XXXIV (1904) memoria 7.

(25) Non condivido di leggere nel testo di Plutarco Ouìbioz Sìkkaz,

anhr… come propone lo Ziegler in “addenda et corrigenda” Lipsia 1939 vol. IV 2 p. XV

(26) Cfr. ad fam. 14,4,6; ad Att. 8,12,4; 12,23,3; 14,19,5; 16,6,1; 6,11,1;3,2.

(27) Cfr. HEEREN “de fontibus et autorictate vitarum parallelarum” Gottingae 1820 p.129 e seg.;

GUDEMAN “ The Sources of Plutarch’s Life of Cicero” Philadelphia 1902.

  Torna ad Articoli