Salvatore Tramontana Il Cavaliere, l’Uomo, il PoliticoA Mileto, col potenziamento del castrum e con la costruzione della cattedrale, Ruggero I d’Altavilla concretizzava, secondo un modello già sperimentato da Rainulfo Drengot ad Aversa, «la compresenza dei due distretti amministrativi, quello comitale e quello vescovile». Concretizzava cioè un impianto urbanistico e di potere che riconduceva a quel vantaggioso ma tormentato dialogo fra normanni e struttura ecclesiastica che, specie in Sicilia, avrebbe avuto più articolato sviluppo e più incisivo radicamento nel territorio. L’incastellamento non era infatti solo una scelta strategica e difensiva, ma pure residenziale, amministrativa, economica, sociale, culturale: l’apertura di un dialogo fatto anche di pietre che divenivano simboli in uno spazio interiore legato a un preciso modo di vedere la città, il suo impianto urbano e i nessi col territorio. Mileto però, che era stata per parecchi anni il punto di aggregazione più importante per Ruggero I e che gli era servita da base per conquistare e controllare la Sicilia, non fu mai sede stabile di governo. II conte di Sicilia infatti, se non era soprattutto rimasto come il Guiscardo uomo di guerra, non aveva certo completamente abbandonato, in termini almeno di stato d’animo, l’esperienza nomade degli antenati vichinghi. E da nomade, appunto, aveva vissuto momenti essenziali della sua esperienza in Calabria e in Sicilia, nei cui spazi malgrado la necessità concreta di coordinare attorno a una sede stabile i quotidiani problemi di governo, non era riuscito a decidersi fra Troina, Messina e Mileto, né ad andare oltre il modello di una cancelleria e di un tesoro ambulanti. Cioè di un impianto amministrativo che poggiava su una struttura scrittoria prevalentemente greca anche quando destinatarie erano componenti etniche latine, su una continuità delle istituzioni finanziarie di tradizione araba, su un governo centrale che spostava la sede in base a contingenti esigenze di sicurezza e di controllo del territorio. A Mileto comunque Ruggero I, con grandi feste e «accompagnamento di musici», sposava Giuditta di Evreux e coronava un sogno della fanciullezza sbocciato in terra di Normandia. E a Mileto, a causa di una stenocardia, il 22 giugno 1101, concludeva la sua vita terrena. Aveva settan’anni ed era giunto in Calabria quasi mezzo secolo prima. Ruggero I era l’ultimo dei fratelli d’Altavilla arrivati nel Meridione d’Italia ed urna è probabile che allora, avesse vent’anni, Nell’ autunno 1057 le fonti ne registrano la presenza in Calabria, al seguito di Roberto il Guiscardo. E, seppure assai renitenti, i cronisti lasciano intendere i brutali sistemi di occupazione e le continue razzie di beni, animali, persone. I normanni, si legge in parecchie testimonianze, erano più raffinati dei greci nella loro violenza e più spietati dei saraceni. A un prigioniero, riferisce un cronista, venivano amputate le membra secondo precise scansioni di tempo, e alle popolazioni che opponevano resistenza venivano distrutti i campi, bruciate le case, violentate le donne. Sia Malaterra che Amato di Montecassino accennano ai lucrosi riscatti in denaro coi quali Ruggero I assoldava uomini per rimpolpare i reparti del suo esercito. E non mancano le fonti documentarie che fanno riferimento a continue rivolte e a esemplari operazioni di polizia con le quali il conte di Sicilia riportava ordine e tranquillità. In una pergamena in greco del 1096 di dice per esempio, che chiunque non avesse restituito i villani trattenuti illegalmente doveva essere frustato pubblicamente e «condotto in giro alla berlina coi capelli rasi e con una canna in mano». I normanni del resto, dicono esplicitamente i cronisti, erano giunti nel Mezzogiorno italiano per «fare cavalleria», cioè per battersi con audacia, piacere del rischio e gusto della violenza, e per assicurarsi benefici e terre: «molti — precisa appunto Guglielmo di Puglia — si erano lasciati convincere a partire: taluni perché avevano pochi o nessun bene, altri per accrescere la propria fortuna, tutti per desiderio di ricchezza». Un desiderio assai accentuato e particolarmente radicato nella famiglia d’Altavilla: «per loro natura —precisa Malaterra— i figli di Tancredi erano sempre avidi di potere, e non intendevano sopportare senza invidia che altri, anche se molto vicini a essi,avessero nelle loro mani possedimenti terrieri se non prestavano servizio direttamente come sudditi, o se non facevano tutto a vantaggio dei sovrani». Le vicende di Ruggero I sono in gran parte note, ed esistono testi di diversa fattura e di disuguale valenza espositiva e scientifica ai quali i lettori possono far ricorso per cogliere le linee essenziali della carica esplosiva e dell’abilità da lui dimostrate per conquistare e controllare un territorio e per delineare la fisionomia di un’epoca. Quel che invece rimane ancora in ombra è la dimensione umana e politica del conte di Sicilia. Cioè la sua facoltà assimilatrice, sollecita a ogni suggestione, pieghevole a ogni influsso, aperta a ogni esperienza. Che voleva poi dire la sua spregiudicatezza politica e la sua raffinatezza diplomatica, appunto la sua capacità di cogliere, di un territorio e dei suoi abitanti, i complessi problemi anche etnici. E in ciò — nell’aver appunto saputo utilizzare quanti, come singoli e come gruppi potevano essergli utili — sta la grandezza di Ruggero I e della risonanza, non solo fra i coevi, della sua opera. Il suo spessore costruttivo —sul piano economico, diplomatico, religioso e di organizzazione dello Stato — è testimoniato da parecchie fonti. Da esse, al di là di ogni ragione di parte e di ogni panegirico voluto o imposto, emerge che nel Mezzogiorno, dopo la morte di Roberto il Guiscardo, per far fronte alla decomposizione politica del ducato, rimaneva una sola alternativa: quella di Ruggero I ritenuto da Malaterra unico sostegno della continuità di dominio degli Altavilla. E proprio questa consapevolezza diffusa persino in ambito pontificio — in quegli anni Urbano II gli riconosceva ad personam i diritti di Legazia apostolica — dimostra in qual misura erano cresciuti la forza e il prestigio del conte di Sicilia anche in campo internazionale. Molti principi e monarchi accettavano di buon grado, o addirittura sollecitavano, con parole e comportamenti, la sua amicizia e la sua parentela. Ruggero I —che nel 1089 sposava in terze nozze Adelasia del Vasto, figlia del piemontese marchese aleramico — riusciva a far sposate le figlie, alle quali elargiva consistenti doti, con esponenti delle famiglie principesche più potenti del tempo. Maximilla, per esempio, andava sposa a Coloman, re d’Ungheria, Costanza a Corrado, figlio di Enrico I, imperatore del Sacro Romano Impero, Matilde a Raimondo IV di Saint—Gilles, conte di Tolosa, Flandina al conte Enrico Aleramico, fratello di Adelasia, Emma, promessa a Filippo I re di Francia, accettava poi di contrarre matrimonio con Guglielmo III, conte di Clermont. Non si sa purtroppo molto sulle connotazioni somatiche e psicologiche di Ruggero I e, col suo aspetto fisico, rimangono in ombra i comportamenti quotidiani, il carattere, la personalità. Nessuna sua immagine è giunta a noi, e il cavaliere con scudo e vessillo raffigurato sui follari comunemente attribuiti alla zecca di Mileto, richiama più che la figura di Ruggero I quella generica dei guerrieri normanni ricamata sull’arazzo di Bayeux o scolpita sul portale «degli otto cavalieri» della basilica di San Nicola di Bari. Un’attenta lettura delle cronache permette però di cogliere taluni fugaci riferimenti alle fattezze fisiche di Ruggero I, alle asprezze e intemperanze del suo carattere, agli estri improvvisi e geniali della sua fantasia,ai tormenti inquieti e scontrosi del suo modo di essere e di pensare sia all’interno dei rapporti coi familiari che nel più ampio contesto della cultura e mentalità del tempo. In una pergamena del 1100 Ruggero I, nel paragonarsi per esempio agli splendores del sole che effudiunt radios per tutto il mondo, offriva l’immagine di un principe il cui potere non era solo espressione del dominio terreno, ma anche di quello degli elementi naturali e dei loro simboli. Ed è noto che, nei quadri mentali del tempo, il richiamo al sole rispecchiava l’immagine di un governo in cui convergevano istanze cristiane e istanze pagane e istanze appunto che scaturivano dagli ideali religiosi e dalla concezione sacrale della cavalleria, dagli istinti radicati e insopprimibili delle virtù guerriere e delle spregiudicate durezze del concreto operare politico. «Sempre avido di dominio qual era, Ruggero I – scrive Malaterra — fu preso dall’ambizione di impadronirsi [della Sicilia] pensando di poter trarre due vantaggi, uno per l’anima, l’altro per il corpo, se avesse ricondotto al culto di Dio un paese dedito agli idoli e avesse goduto egli stesso nel mondo i frutti e le rendite della terra che una gente invisa a Dio aveva a sé usurpato». Tutti i cronisti, e Malaterra in particolare, si sforzano di cogliere e delineare in Ruggero I l’innesto fra disegno divino, politica e capacità di comunicare e convincere. Testimoniate d’altronde, queste capacità, da una significativa ed esemplare convergenza con le forme espressive e le arenghe di tanti diplomi redatti dalla cancelleria del conte di Sicilia. La cui politica appunto si alimentava attraverso un’assimilazione attiva del mondo greco e di quello islamico e attraverso uno scambio continuo col patrimonio religioso e morale dell’Europa cristiana. Condizione generale della rappresentazione delle forme di civiltà e delle maniere di vita dei cavalieri era del resto la grandiosità, la vistosità, l’astuzia e la nobiltà dei comportamenti: il mondo degli eroi era il mondo della perfezione e aveva per oggetto le eccelse imprese della virtù militare. I cavalieri erano cortesi e generosi, oltre che vigorosi e abili guerrieri: erano magnifici, solenni e splendidi come Ruggero I, che Guglielmo di Puglia giudica «assai valoroso, anche se giovane», impegnato in una dura lotta contro i nemici di Dio, «desideroso di esaltare la “santa fede” cristiana». In questo contesto, nella dinamica di un tale impianto espositivo, bisogna leggere i riferimenti dei cronisti alla identità operativa di Ruggero I. Le cui gesta, di fronte a un’imboscata tesagli dai saraceni, permettevano per esempio al Malaterra di delineare un eroe che, con prodigioso rotear di spada, riusciva a liberarsi degli aggressori. Permettevano cioè al cronista di cogliere l’ambiente, l’atmosfera, il clima epico — religioso di eroismo e di grandezza attribuito ai normanni dalla conquista di Sicilia. Lo si ricava infatti dal capitolo trenta del secondo libro del De rebus siculis nel quale motivi e parole sono in gran parte prelevate dal linguaggio e dalle forme dell’epopea cristiana contro i saraceni. Il prevalere, nei cronisti, di questo modo di raccontare le vicende è funzionale alla coralità organica delle conquiste e alla elaborazione di simboli costruiti spesso più per rappresentare il concetto di forza, di coraggio, di impeto guerriero del cavaliere, che per ricostruirne l’identità in carne e ossa. Per far notare appunto la circolazione anche biologica della strenuitas e ribadire il mito della forza e della giovinezza. Secondo uno schema che, presente nei cronisti franchi, si ritrova in quelli normanni. Cosi Malaterra traccia l’aspetto fisico e il tipo umano di Ruggero I: «egli era giovane e assai bello, di alta statura e di proporzioni eleganti, pronto di parola, saggio nel consiglio, lungimirante nel trattare gli affari. Sempre di carattere piacevole e allegro, era pure dotato di grande forza e di gran coraggio nei combattimenti: per tutti questi pregi in breve meritò ogni credito. Ed è un ritratto tracciato con linee nette e coerenti, e sostanzialmente analogo a quello offerto, sia pure con ritmo più rigido e pedantesco, da Romualdo Salernitano. È insomma il ritratto convenzionale presentato da un intellettuale cortigiano». La forza fisica, il coraggio e la lungimiranza nel trattare gli affari non sembrano però solo gli elementi di un modello di eroe e di signore che caratterizzava gli schemi mentali di un’epoca, i documenti psicologici di una immagine che, su consiglio degli stessi sovrani,gli uomini di corte si sforzavano di proiettare. Del suo corpo agile e muscoloso,del suo amore per la guerra e disprezzo per la morte in più occasioni Ruggero I non mancò di dare prova, anche se non sempre la consapevolezza della realtà e la facilità di controllo delle situazioni possono essere annoverate fra le sue doti principali. Non possono comunque passare inosservati i riferimenti al suo carattere allegro e al desiderio di comunicare con chi gli stava attorno anche attraverso atteggiamenti volgari di immediato effetto. E basti a tal riguardo, ricordare quel che scrive un cronista musulmano che, nel riferire di una riunione di consiglio precisa che Ruggero I, per rendere più eloquente la sua decisione, «levata una gamba, fece una gran scorreggia dicendo: «affé mia, questa vale più di qualsiasi vostro discorso». Non mancano qua e là nelle fonti accenni al nesso strettissimo tra fattori ambientali, esercizi fisici e sanità ed efficienza del corpo. E se Malaterra riferisce che a Gerace, dove l’aria era inquinata, Ruggero I era stato colpito da violenta e improvvisa febbre, Guglielmo di Puglia sottolinea che il conte di Sicilia, prima di ogni battaglia, invitava i suoi guerrieri a comunicarsi e ad allenare il corpo. I riferimenti al corpo, alla sua agilità ed eleganza, offrono infatti l’immagine del perfetto cavaliere «dalle spalle larghe e dall’aspetto possente». Delineano cioè un modello di condottiero in cui energia fisica, dimensione estetica e virtutes erano aspetti di un unico atteggiamento. Di un atteggiamento connaturato alla bellezza come componente qualificante e carismatica del potere. E tale quindi da collocare Ruggero I nel sacro, nella categoria appunto di chi, per virtù e capacità dategli da Dio, era in grado di esercitare le funzioni di capo. Al di là di questa immagine che sembra esercitasse parecchio fascino sui sudditi, le fonti permettono comunque di isolare qualche dettaglio che rivela più da vicino il volto umano e i risvolti più misteriosi e insondabili della psicologia di Ruggero I. Permettono cioè di fissare affetti, passioni, comportamenti del conte di Sicilia, il quale amava probabilmente la musica e aveva una generica disponibilità per la cultura,ma anche,e lo si è visto, per un linguaggio volgare e da caserma e per gesti scurrili. Non disdegnava le cerimonie ufficiali, il piacere della tavola, l’ebbrezza del vino, le gioie della carne: le fonti, che registrano tre suoi matrimoni, gli attribuiscono numerosi bastardi Ma evidenziano pure la componente affettiva del rapporto con la giovane moglie Giuditta che, «timorosa e riluttante», lo aveva seguito a Troina. Dove, durante le drammatiche vicende della rivolta contro i normanni, Ruggero I e la moglie, scrive Malaterra, mancavano di vino, di cibo, di fuoco, e «non disponendo che di una sola cappa in due, se ne servivano a turno, a secondo di chi ne aveva maggiore necessità». Malaterra tendeva certo a suscitare emozioni, oltre che immagini, ma le considerazioni sul progressivo crescere del figlio nel grembo di Adelasia e sulla nascita di Simone, evidenziano, nel conte di Sicilia, una squisita e acuta sensibilità paterna. La stessa, in fondo, che il cronista coglie per la scomparsa di Giordano, il figlio naturale morto nel fiore degli anni per febbre violenta: «molti si commuovevano più per il dolore del padre che per la morte di Giordano»,precisa infatti Malaterra, e aggiunge: anche i saraceni,che pur ci consideravano spiritualmente inquinanti,erano spinti al pianto «non tanto per amore, ma perché ci vedevano profondamente scossi dal dolore». Ed è un contesto, un atteggiamento, una concreta adesione di sentimenti fra cristiani e saraceni che aiutano in parte a comprendere il significato delle formule religiose augurali di stile islamico presenti nei documenti di cancelleria normanna nei quali, per la morte di Ruggero I, si scriveva: «Allah santifichi il suo spirito e illumini il suo sepolcro». Bibliografia essenziale Le fonti e la bibliografia utilizzate si trovano indicate in: F. Chalandon, Histoire de la domination en Italie et en Sicile, Paris 1907, I, pp. LXX – XCIII; S. Tramontana, La monarchia normanna e sveva, UTET, Torino 19942, pp. 335-360. |