Marilisa MORRONE NAYMO Riuso dell’antico Nei Monumenti Ruggeriani In MiletoNei secoli scorsi, allorché un viaggiatore si trovava a transitare da Mileto, la sua attenzione veniva immediatamente catturata dalle due chiese sorte per volontà del Gran Conte Ruggero d’Altavilla nel fausto periodo in cui la cittadina fu la prima capitale della contea normanna di Calabria e Sicilia: l’Abbazia della Santissima Trinità e la Cattedrale. Queste, colpite nel corso dei secoli in più riprese da violenti sismi (provocarono danni alle chiese quelli del 1638 e del 1659), vennero definitivamente rase al suolo dal più devastante, quello, tristemente famoso, del 1783. Gli edifici, il cui aspetto è stato restituito da studi condotti sull’evidenza archeologica e sulle fonti (in particolare piante del XVI e XVII sec. conservate nell’Archivio del Collegio Greco e pubblicate dall’Occhiato), e che per icnografia e soluzioni architettoniche ben si inseriscono nel panorama europeo delle maggiori fabbriche romaniche, erano caratterizzati da un massiccio uso di materiali classici. Grande ammirazione suscitava, tra i Figura 1. Sarcofago attico con Amazzonomachia. II sec. d.C. fortunati che poterono ammirarli prima della loro distruzione, lo sfarzo con cui erano i monumenti erano decorati (tra i due, specialmente l’abbazia), derivante dai differenti marmi utilizzati, dai quali scaturiva una variegata policromia. Colpiva l’ammirazione dei visitatori il verde alternato ai grigi, al bianco, alla breccia rosata; inoltre le scanalature delle colonne rudentate alternate alle levigate superfici dei fusti lisci, le cornici variamente modanate, i capitelli corinzi e compositi; infine le sepolture degli Altavilla, tra le quali spiccavano il monumento sepolcrale del conte Ruggero seppellito in un grande sarcofago romano strigilato, ed un altro, attribuito nel 1836 dal Capialbi alla seconda moglie Eremburga, costituito da un sarcofago attico con Amazzonomachia. La pratica del reimpiego di spoglie classiche ha origini molto antiche, risale addirittura al IV secolo, all’età dell’imperatore Costantino che, nell’ambito di una politica edilizia di rinnovamento, cominciò il sistematico spoglio degli edifici della Roma classica per ragioni politico-ideologiche; lo stesso Arco di Trionfo costantiniano è decorato da bassorilievi e statue di età adrianea, antonina, traianea nell’ambito di un preciso programma di propaganda. La stessa ideologia informò anche la politica edilizia di Carlomagno, che fece utilizzare marmi romani quale ideale successore degli imperatori classici, artefice di una renovatio imperii anche nell’architettura. Ma il fenomeno si affermò in maniera capillare intorno all’anno mille in occasione delle grandi fabbriche abbaziali dell’ordine benedettino: gli abati, essi stessi protomagistri delle nuove costruzioni, seguendo l’esempio di Desiderio di Montecassino che nel procurare spoglie per la sua abbazia aveva affermato “tribuit sua marmora Roma”, cominciarono un vero e proprio pellegrinaggio presso la capitale alla ricerca degli ottimi marmi di varia provenienza che si potevano trovare fra le rovine della Roma classica. Ben presto, e anche per tutto il XII e il XIII sec., anche i vescovi, specialmente quelli di provenienza nordica, imitarono gli abati benedettini per la costruzione delle cattedrali; fu così che le grandi fabbriche romaniche inglesi e francesi si arricchirono di marmi tratti da Roma o da altri siti archeologici. Il fenomeno si diffuse soprattutto nel mondo normanno, sia in Francia che in Inghilterra, ma contemporaneamente anche in Italia meridionale, dove esso si innestava nella tradizione longobarda e bizantina alla quale questa pratica non era affatto sconosciuta; basti pensare ai reimpieghi che caratterizzano l’abbazia di S. Vincenzo al Volturno, la chiesa di S. Angelo in Formis, la Cattolica di Stilo, il Battistero di Santa Severina ed altri edifici, in tutto quel territorio che graviterà intorno al regnum normanno. Successivamente all’abbandono dell’abitato di Mileto, distrutto dal terremoto del 1783, durante la completa riedificazione dello stesso in altro sito, si diffuse la deprecabile pratica del saccheggio delle sue rovine, divenute così agevole cava di pietra per le nuove costruzioni, pratica che, del resto, già la Trinità aveva subito dopo il terremoto del 1659; l’Abbazia e la Cattedrale furono, ovviamente, i due edifici che pagarono il prezzo più alto in questa operazione: i blocchi lapidei ben squadrati furono molto richiesti dai mastri fabbricatori della nuova Mileto, che li impiegarono negli edifici moderni nel cui tessuto murario ancora oggi si leggono distintamente; i blocchi che non potevano essere più rimessi in opera finirono per essere trasformati in calce. Anche i marmi divennero preda di mastri, ma soprattutto di collezionisti di antichità, e furono destinati ad abbellire giardini e ville; alcuni elementi vennero impiegati in edifici più prestigiosi, come il Seminario cosiddetto “Vecchio”, dove sono in bella mostra nella facciata dodici basi marmoree di lesena. Oggi è in atto una lodevole operazione di raccolta (peraltro già auspicata dall’Orsi agli inizi del ‘900) dei materiali provenienti da Mileto vecchia e dispersi tra collezioni private ed altre collocazioni, alcuni già esposti, altri in via di sistemazione nel Museo Statale istituito di recente presso la Curia Vescovile. L’Abbazia della SS. Trinità. Una parte dei marmi reimpiegati nella famosa chiesa abbaziale (fondata prima del 1070 ma consacrata una prima volta nel 1080, quindi, con ogni probabilità, dal Papa Pasquale II nel 1101, anno di morte del Conte Ruggero, e una terza volta nel 1166), si trova oggi tra le sue rovine; in particolare alcune basi ancora in situ, colonne e qualche blocco di trabeazione, mentre una cospicua parte dei marmi antichi oggi conservati nel Museo della nuova Mileto, si deve considerare come pertinente alla stessa chiesa. Figura 2. Nicchia per colonnina all'innesto del transetto con la navata sinistra La chiesa abbaziale, la cui platea di fondazione superstite è stata messa interamente in luce da scavi archeologici antichi e recenti, presentava tre navate scandite da due file di sedici colonne su base, transetto sporgente con pilastri cruciformi al suo innesto con le navate (sui quali, secondo quanto riportato dal Calcagni erano addossate semicolonne di vari marmi), e tre absidi allineate con le navate stesse; la prima colonna della navata destra fu eliminata e sulla base pertinente ad essa si sovrappose la successiva costruzione di una torre campanaria all’interno della facciata, come è testimoniato anche da una delle piante del Collegio Greco datata al 1638, dove è tracciata nel muro del campanile la sagoma di una metà della base. Lungo la parete della navata sinistra si trovano alcune nicchie semicircolari, che, verosimilmente, dovevano alloggiare colonnine ivi situate per movimentare la superficie dei muri e dare un effetto cromatico contrastante con il candore della pietra calcarea usata per la struttura muraria; presso gli altari vi erano sepolture gentilizie, ancora oggi visibili sotto il pavimento. La parete opposta, invece, dove non si trovano tracce di queste nicchie né di altre sepolture, doveva essere occupata soltanto dai monumenti gentilizi degli Altavilla con i grandi sarcofagi (almeno i due a noi pervenuti) classici; la navata destra sembra, dunque, essere stata riservata alla famiglia comitale già dalla prima progettazione della chiesa. Figura 3. Pianta dell'Abbazia del 1638, particolare con la rappresentazione delle colonne addossate ai pilastri del transetto e del coro maggiore Molte fra le sedici basi delle colonne dell’Abbazia si sono conservate (l’attribuzione a questa chiesa è certa per la circostanza che le colonne della Cattedrale non avevano basi, come attestato da varie descrizioni): sei sono ancora in situ, due fra le quali inglobate in strutture di fasi successive ad esse sovrappostesi, due si trovano presso i ruderi ma fuori contesto, le altre nel Museo ed in altri punti della nuova città. Si tratta di basi attiche su plinto quadrato con scozia tra due tori, databili fra I e III sec. d.C. Altri basamenti si riferiscono a sostegni per pilastri o semicolonne che potevano essere stati reimpiegati presso i pilastri del transetto; fra essi, particolari sono 1) una base attica su piedistallo, in marmo proconnesio (produzione proconnesia del V sec. d.C.); 2) un basamento con tori e plinto decorati: il toro superiore presenta un festone d’alloro, quello inferiore un anthemion a palmette alternate ad un motivo vegetale “a lira”; sul plinto, racemi d’acanto; il pezzo si data ad età adrianea. Figura 4. Base di età adrianea reimpiegata probabilmente presso i pilastri del transetto Nella pianta del 1638, che riporta alcune riparazioni da farsi per i danni subiti dalla chiesa in quell’anno, compaiono quadratini inseriti nei pilastri terminali della navata, sulle testate dei muri del coro maggiore e ai lati dell’abside centrale: essi indicano con buona probabilità la presenza di queste basi quadrangolari inserite nello spessore dei muri sulle quali erano sistemate le colonne o semicolonne ricordate anche dal Calcagni; le colonne dei pilastri fronteggiavano quelle situate alla testa dei muri del transetto, di una delle quali ancora si conserva la nicchia entro cui era collocata. La presenza di colonne che fiancheggiano l’abside centrale è stata accertata da scavi archeologici anche nell’ Abbazia di S. Maria di Sant’Eufemia, di poco precedente l’Abbazia milesia e attribuita allo stesso protomagister, ovvero l’abate normanno Robert de Grandmesnil, congiunto del Conte Ruggero; il motivo decorativo, di ascendenza islamica, compariva anche nell’Abbazia desideriana di Montecassino e si ritroverà, inoltre, in molti edifici ecclesiali calabresi e siciliani del XII sec. come S. Maria della Roccelletta, la Cattedrale di Cefalù e la stessa Cappella Palatina a Palermo. Le colonne della Trinità non si sono conservate tutte, e tra quelle riferibili alle navate solo quindici: 4 in marmo grigio, 3 rudentate, 4 in granito (una in granito della Troade si può vedere ancora tra i ruderi), 2 in verde antico, 1 in breccia policroma, 1 in cipollino; inoltre tre semicolonne in granito pertinenti ai pilastri, e una, in verde antico, ancora in situ davanti al muro di cinta dell'Abbazia, identificabile con una di quelle visibili nell’incisione del Pacichelli forse relative alle rovine di una delle costruzioni relative al monastero e crollate già nel corso dei sismi del XVII sec. È intere7ssante notare la scelta delle colonne rudentate, che in genere venivano preferite nelle chiese con reimpiego, probabilmente per il loro valore decorativo e la loro proprietà di creare un effetto di chiaroscuro; nella Cattedrale di Gerace (XII sec., dunque successiva) ne sono sistemate quattro, disposte a coppia, nella metà del colonnato più vicina al transetto; è possibile che anche a Mileto fossero altrettante (anche se al momento se ne conoscono tre) e poste allo stesso modo; il modello della SS. Trinità dovette essere ben presente all’architetto che realizzò la chiesa geracese su committenza di Ruggero II, dove, infatti, si ritrovano altri elementi decorativi presenti già nell’Abbazia (ad esempio le alte paraste sulle absidi). Molti frammenti di colonne ed altre intere ma di minori dimensioni, sono sicuramente riconducibili a quelle reimpiegate lungo le pareti della navata sinistra, sui pilastri della crociera e sull’abside maggiore. I 14 capitelli conosciuti (alcuni sono oggi scomparsi ma se ne possiedono immagini) sono di vario tipo, cronologia e dimensione: 1) quattro esemplari corinzi asiatici di periodo tetrarchico-primo costantiniano, contraddistinti da due corone di foglie d’acanto spinoso, caulicoli, stelo del fiore dell’abaco e calicetto molto stilizzati tanto da perdere naturalezza e da diventare solo elementi decorativi. 2) due esemplari, di uno dei quali si conserva un solo frammento, a calice greco, con due caratteristiche corone differenti: l’inferiore con otto foglie d’acanto, la superiore con sedici affusolate foglie d’acqua terminanti con la punta ripiegata sotto l’abaco; essi sono databili alla prima metà del II sec. d.C. per le foglie d’acqua strette e ben rilevate, le foglie d’acanto ben definite nei particolari; si tratta di caratteristici prodotti delle officine greche, diffusi fin dalla prima metà del II sec. d. C. anche in Italia meridionale: esemplari simili sono presenti a Reggio, Canosa, Siracusa; simili ad essi erano quelli asiatici (reimpiegati invece a Gerace) in cui si trovano baccellature in luogo delle foglie d’acqua. 3) due esemplari compositi del III sec. d.C. con parte inferiore corinzia e volute ioniche. 4) Due capitelli attribuibili alle semicolonne dei pilastri, l'uno corinzio asiatico databile tra la fine del III e gli inizi del IV sec. d.C., l'altro corinzio occidentale di II sec. d.C. Figura 5. Sottocornice reimpiegata nelle strutture del XVII sec. Età adrianea Numerose lastre di trabeazione con kymatia vari, alcune delle quali visibili in reimpiego secondario nelle fasi di ricostruzione della chiesa databili al XVII secolo, si conservano sia nei ruderi dell’abbazia che nel Museo. Il cospicuo numero attestato, testimonia un loro consistente riuso nella chiesa: si tratta di sottocornici in marmo proconnesio databili quasi tutte ad età adrianea con kymatia ionici, lesbici trilobati (perlopiù di tipo B), a dentelli. Da aggiungere, incorniciature di porte, cornicette e stipiti con racemi d’acanto, databili tutti al II sec. d.C., che potrebbero provenire dal portale d’ingresso dell’abbazia, che la relazione del Vivenzio sui danni provocati dal terremoto del 1783 ci attesta essere stato di marmo bianco. Figura 6. Capitello corinzio occidentale in marmo procannesio. Età flavia. L’attestazione di un alto numero di sottocornici solleva il problema del loro reimpiego, poiché esse presuppongono la presenza nella chiesa di architravi; se ciò si ammette, si devono ipotizzare soprastanti le colonne non archi (come a Gerace, nella Cattedrale della stessa Mileto ed in tutte le fabbriche normanne siciliane), ma architravi orizzontali sul modello delle basiliche altomedievali, che si ritrovano in alcune chiese romane ancora nel XII sec. e sono costituiti quasi sempre da trabeazioni classiche in reimpiego. Tuttavia l’opera dell’abate Calcagni (1699), che però giunse a Mileto dopo la rovina della chiesa medievale e perciò non la vide, ci parla delle colonne che sustinebant arcus: pur trattando con ogni cautela la fonte, che in diversi punti si rivela contraddittoria ed inesatta (spesso, infatti, confonde particolari della prima chiesa con quelli della ricostruzione post-terremoto del 1659), occorre comunque considerarla; come spiegare, dunque, il riuso delle cornici in presenza di archi? La questione apre la strada a nuove ipotesi ricostruttive dell’interno che potranno essere valutate soltanto dopo aver effettuato una raccolta completa dei reperti, alcuni ancora dispersi, ed un loro accurato rilievo. Figura 7. Capitello a calice greco. Prima metà del II sec. d. C. Molti tra gli elementi architettonici reimpiegati (soprattutto capitelli e trabeazioni) nella prima fase della chiesa, recano tracce di rilavorazione: ciò presuppone la presenza di marmorari professionisti che nelle chiese medievali sono strettamente connessi al riuso di marmi antichi e che non è escluso siano gli artefici, come già attestato per molte fabbriche del secolo XI, di tutto il progetto decorativo della SS. Trinità. Nell’XI sec. sono le botteghe romane a fornire le maestranze specializzate in questa attività, dunque è estremamente probabile che furono proprio esse ad eseguire la preparazione e la messa in opera dei marmi antichi; l’incarico dato a marmorari provenienti da Roma potrebbe essere messo in relazione agli stretti rapporti stabilitisi fra Papato ed Altavilla che videro protagonisti anche gli Abati benedettini, e, in particolare, a quel soggiorno romano (che nell’ambito di questi rapporti si inserisce), dell’Abate protomagister della Trinità, Robert de Grandmesnil, avvenuto nel 1061 prima di giungere in Calabria chiamato a guidare l’Abbazia di S. Eufemia; questo soggiorno dovette servire, come rilevato dall’Occhiato, all’Abate normanno (peraltro già architetto di un’Abbazia lasciata incompiuta in Normandia) per conoscere ed assimilare il modello basilicale tardo-romano che tanta influenza ebbe sul tutto l’impianto del corpo longitudinale della SS. Trinità; basti pensare che a Roma egli fu ospitato dal Papa presso la basilica di S. Paolo, vero e proprio modello per tante chiese successive; in tale interpretazione del linguaggio architettonico tardo-classico adottato dal Grandmesnil a Mileto e condiviso anche dalle maestranze romane che vi lavorarono, si potrebbe inserire anche il motivo dell’architrave orizzontale per i valichi tra le navate. La struttura basilicale di modello tardo-antico con trabeazioni classiche, infatti, si richiama ad una tipologia romana classicheggiante ben conosciuta e messa in atto dalle botteghe marmorarie della Capitale già nell’XI sec.; essa fu sistematicamente adottata tra il XII e il XIII sec. da quella nota bottega dei Cosmati (peraltro attestata anche nella Trinità di Mileto), nei portici di molte chiese romane (S. Lorenzo in Lucina, SS. Giovanni e Paolo, S. Giorgio al Velabro, S. Lorenzo fuori le Mura ed altre) e nella navata di S. Maria in Trastevere dove vengono associati elementi scolpiti ex novo a quelli di spoglio, che però mantengono una posizione preminente. Il monumento funerario del conte RuggeroUnico elemento superstite della sepoltura di Ruggero I è il grande sarcofago marmoreo strigilato della prima metà del III sec. d.C., conservato nel Museo Nazionale di Napoli. Esso è un bellissimo esemplare di produzione urbana, con porta ditis al centro tra paraste rudentate con capitelli corinzi; sui lati sono scolpiti due seggi curuli, sormontati da teste di meduse il cui viso è stato rilavorato e sostituito da croci; agli angoli della fronte, due busti acefali, uno maschile, l’altro femminile. Dalla pianta del 1581 conservata nell’Archivio del Collegio Greco, si conosce l’esatta collocazione del mausoleo del conte Ruggero: esso si trovava tra la quinta e la sesta colonna della navata destra, appoggiato alla parete meridionale della chiesa; il disegno, di forma rettangolare, è accompagnato dalla legenda «Sepoltura di re Rugiero». Il problema della sepoltura di Ruggero I ha attirato l’attenzione degli studiosi per l’attribuzione del mausoleo funerario ad un Petrus Oderisius, appartenente proprio a quella dinastia di marmorari romani dei Cosmati specialisti nel reimpiego, ed attestato dall’iscrizione che si trovava incisa sulla parete retrostante il sarcofago. Figura 8. Miniatura del Codice Bernese 120, II, f.3, 1197. Una testimonianza riferibile ad un periodo precedente il terremoto del 1638, contenuta nel Ms Barberino-Latino n. 5392 e pubblicata dal Mercati nel 1942, riporta le seguenti notizie: che un grande sepolcro in marmo bianco, opera antica priva d’ornamento stava nella parte destra nell’”entrare”; che si diceva che in questa cassa ci fosse seppellito il conte con la moglie; che il sepolcro era staccato dal muro (forse fu tolto del tutto dopo il terremoto del 1638, perché sulla pianta successiva all’evento non compare) ma in origine non lo era; che sulla parete si vedevano caratteri «greci» non più leggibili; che sulla parete, accanto all’iscrizione, fossero appese lo scudo e le armi del conte e che poi vennero tolte dal Cardinale della Valle. L’iscrizione sbiadita del primo scorcio del seicento era, invece, ben leggibile alla fine del XVII secolo, in conseguenza del restauro che la chiesa ed, evidentemente, anche la stessa iscrizione avevano subito dopo i numerosi crolli verificatisi durante il sisma del 1659; essa è riportata dal Pacichelli che la vide durante il suo viaggio nel regno meridionale: Rogerii Comitis Calabriae, et Siciliae hanc sepolturam fecit Petrus Oderisius Magister Romanus. Hoc quicunque leges, dic sit ei Requiem. Il ripristino dell’iscrizione è confermato dall’abate Diego Calcagni (1699), autore dell’Historia cronologica brevis dell’abbazia; egli riferisce che, durante i lavori di restauro dell’edificio successivi al terremoto del 1659 che trasformarono la chiesa, il sarcofago rimase a lungo nel cimitero vicino ad essa; successivamente in meliorem et nobiliorem formam in ala sinistra (intendi dextera) repositus est, collocato tra due colonne di marmo, e sulla parete fu scolpita l’iscrizione vista dal Pacichelli che, evidentemente, riproduceva l’originale con la firma di Pietro Oderisio; accanto a questa fu anche apposta, in occasione del ripristino del monumento, un’iscrizione nel cui testo, riportato nell’appendice dell’opera, comparivano una sintesi delle gesta del Conte chiuse dall’espressione in hac Basilica regio funere tumulatur hac Epigraphe: Linquens terrenas, migravit Dux ad amoenas / Rogerius Sedes, nam Coeli detinet aedes. Il Calcagni aveva già riportato, nel testo della sua Historia, che anche in origine Ruggero I era stato seppellito con questi due versi usati come epitaffio, nell’Abbazia da lui stesso fondata. Nel pavimento della navata destra dell’abbazia, risalente alla III fase costruttiva databile alla ricostruzione successiva al 1659, è presente una traccia di dimensioni corrispondenti a quelle del sarcofago di Ruggero, situata dietro la seconda colonna a circa due metri dalla parete: con ogni probabilità si tratta della seconda sistemazione del sarcofago, descritta dal Calcagni. È interessante notare come quest’ultimo non parli dell’altro sarcofago ed invece attribuisca i due busti situati agli angoli del sarcofago di Ruggero allo stesso conte ed alla moglie Eremburga, testimoniando un doppio uso della sepoltura. I due versi dell’epitaffio di Ruggero sono ricordati anche dal Muratori (edizione postuma del 1752), che li conobbe dall’opera di Rocco Pirro del 1643, insieme ad altri di sepolture normanne del XII secolo (quelli del conte Rinaldo, di Guglielmo I, della regina Margherita), fra le prime attestazioni dell’uso della rima nella poesia italiana; gli epitaffi, secondo l’autore, sarebbero la prova di una poesia praticata nel meridione già prima di quella provenzale. Se tutti gli studiosi ed i viaggiatori descrivono il sarcofago di Ruggero e l’altro attribuito alla moglie Eremburga, tuttavia essi non si soffermano sul monumento entro cui quello di Ruggero era collocato, opera del magister romanus Pietro Oderisio. Lucia Faedo nel 1982 ha ricostruito ipoteticamente sulla base delle fonti documentarie il monumento sepolcrale, del quale già l’Orsi supponeva la presenza, attribuendo ad esso una trabeazione in porfido con maschere reimpiegata nella cattedrale di Nicotera e databile alla prima metà del XII sec. Il monumento doveva essere costituito da un baldacchino di porfido scolpito con varie figure e appoggiato alla parete, con timpano triangolare ed il sarcofago collocato al centro su un basamento dove erano probabilmente scolpiti i due versi in rima; sulla base di questi elementi, e dal confronto con il monumento di Alberada moglie del Guiscardo nell’abbazia della Trinità di Venosa, lo data al XII sec. Il Claussen, invece, affrontando il tema delle botteghe marmorarie e delle famiglie dei maestri romani, ha sostenuto l’identità tra il Petrus Oderisio di Mileto ed il maestro omonimo autore di due sepolture illustri del XIII sec., la tomba di Edoardo il Confessore a Westminster e quella di Clemente IV a Viterbo, dunque ha abbassato la datazione del monumento funerario di Ruggero I al terzo quarto del XIII sec. Ma questa datazione, oltre a non essere suffragata dalle contingenze storiche di Mileto e della stessa Abbazia (per la quale scompaiono quasi del tutto anche le donazioni comitali dopo la morte del fondatore), contrasta, fra l’altro, con quanto attestato dallo scavo dell’abbazia. I reperti vitrei, numismatici, ceramici, testimoniano una vitalità ed una floridezza economica durata il breve volgere di poco più di un secolo, che già nel XIII si affievolisce, fino a cessare quasi del tutto nel XIV sec., allorché l’abbazia si dibatte in gravi problemi economici. I frammenti delle vetrate absidali, che la stratigrafia ha attestato essere crollate nel 1659, si datano al XII sec. ed attestano la presenza a Mileto di un atelier di maestranze bizantine che operarono sul posto; la maggior parte delle monete rinvenute sono emissioni bizantine ribattute, oppure esemplari di Ruggero I e Ruggero II; i reperti ceramici sono di qualità ed annoverano manufatti d’importazione fino al XIII sec., nel periodo successivo ne diminuiscono la qualità e la quantità e sono attestati solo prodotti locali; essi confermano, dunque, un’irreversibile decadenza economica dell’abbazia tra XIII e XIV sec. La datazione del monumento funerario di Ruggero I stabilita dalla Faedo agli inizi del XII secolo, è, dunque, la più plausibile. Alla fine del XII secolo (1197), su committenza dell’imperatore Enrico VI, Pietro da Eboli scrisse e miniò il Liber ad honorem Augusti. Tracciando la storia dei Normanni, di cui Enrico era, maritali nomine, il successore, egli dipinge una sepoltura reale attribuendola a Ruggero II, con l’iscrizione hic sepelitur rex cum uxore; il monumento miniato consta di un sarcofago con stilizzazioni di strigliature, sotto un baldacchino sistemato per una visione frontale, dunque addossato al muro dal lato lungo, con timpano triangolare e lampade pendenti, sul modello di quello di Alberada a Venosa. Il sepolcro di Ruggero II, invece, ancora esistente nella Cattedrale di Palermo, è ben diverso da quello miniato: il sarcofago regale è un’urna in porfido, materiale connesso alla dignità regale, retta da cariatidi; esso fu realizzato, secondo recenti studi, intorno al 1187 per iniziativa dell’arcivescovo Gualtiero, e in età sveva fu collocato sotto un baldacchino sostenuto da colonnine. L’iscrizione riportata nel manoscritto bernese sull’architrave del monumento ricorda anche una unica sepoltura del re con la moglie, cosa non attestata per il re Ruggero II, ma per suo padre, il Gran Conte; fin dai primi anni del XVII secolo, infatti, gli autori di scritti sull’abbazia della SS. Trinità di Mileto ricordano la sepoltura di Ruggero I insieme alla moglie (il Calcagni ritiene che sia la seconda, Eremburga, ma potrebbe essere anche la prima, l’adorata Giuditta di Evreux); inoltre il sarcofago scelto per il riutilizzo è adatto ad una sepoltura bisoma, con i due busti-ritratto agli angoli. Non è pertinente a Ruggero II neppure l’iconografia del personaggio ritratto giacente senza vita sul sarcofago: il re, come i suoi successori Guglielmo I e II, è sempre ritratto con gli attributi dell’imperatore bizantino, tra i quali la corona chiusa con la porta centrale ed i pendenti di perle; conosciamo questa iconografia dai mosaici di S. Maria dell’Ammiraglio in Palermo, da una placchetta della Basilica di S. Nicola in Bari, dalle monete; la corona sul capo dell’uomo disteso senza vita nel Cod. Bernese è aperta, e non vi sono pendenti, sembrerebbe più attinente ad una corona comitale o ducale. Anche l’epiteto rex con cui viene indicato nella miniatura il defunto, che potrebbe riportare a Ruggero II, è spesso usato da molte fonti anche per suo padre, e nella pianta della stessa abbazia della SS. Trinità del 1581, proprio il suo mausoleo viene indicato come quello di «re Rugiero». Tutti questi particolari portano in un’unica direzione: il monumento miniato nel Cod. Bernese 120 è quello di Ruggero I nell’abbazia della SS. Trinità di Mileto, a meno che essa non si voglia ipotizzare un riferimento alla sepoltura provvisoria (dal 1154 al 1187) di Ruggero II in Palermo che, tuttavia, non sembra essere stata monumentale. Essendo la miniatura della fine del XII sec., la sepoltura di Ruggero I deve necessariamente essere stata realizzata prima di questo periodo, molto probabilmente subito dopo la morte del conte (avvenuta nel 1101) o addirittura vivente egli stesso, se si considera che la chiesa fu progettata anche in funzione della collocazione di esso nella navata destra, come detto in precedenza. D’altra parte la destinazione della chiesa ad accogliere le sepolture degli Altavilla fu espressa dalla stessa volontà del Conte nel Privilegio (databile entro il 1071) a favore dell’Abbazia appena fondata: ...ut in supradicta ecclesia, quam ab ipsis fundamenis ereptam dotis munere nobiliter ditare cupio, omnes mei heredes ipsis huic precepto meo in vita sua annuentibus, mecum sepulti requiescant. Pur non avendo ancora elementi per specificare con precisione gli anni della sua attività in Calabria, il Pietro Oderisio attestato a Mileto non può che essere un omonimo antenato di quello di Westminster e Viterbo, di quella stessa famiglia dei Cosmati, come detto in precedenza, già fiorente nella capitale nell’XI sec. dove furono autori di splendide opere connesse sempre a reimpieghi di marmi antichi; a lui ed alla sua bottega può sicuramente essere attribuita anche la realizzazione del pavimento in opus sectile con tasselli tratti da marmi antichi e rinvenuti nello scavo, opera nella quale questi magistri doctissimi furono specialisti. Non è escluso che una delle consacrazioni della chiesa che si successero dopo la prima avvenuta nel 1080, sia da connettere al completamento dei lavori riguardanti la navata (come del resto già ipotizzato dall’Occhiato) con tutti i suoi reimpieghi e con il pavimento, nonché all’avvenuta realizzazione del monumento funerario di Ruggero I. La Cattedrale: Oltre che nell’Abbazia, anche nella Cattedrale di Mileto, realizzata successivamente all'Abbazia (diploma di fondazione 1080 circa), erano reimpiegati colonne, capitelli ed altri elementi antichi, come ci è stato tramandato dalle descrizioni antecedenti il terremoto del 1783 e come si può desumere da quanto si osserva sul sito. L’interno della chiesa era diviso in tre navate da due file di colonne abbinate senza base, che sostenevano archi acuti. Tra i reperti oggi conservati sono da considerare pertinenti alla Cattedrale sedici colonne in granito grigio (alcune integre) di dimensioni molto simili (h. tra 3,05 e 2,84; diam. tra cm. 36 e 48); queste colonne non sembrano reimpiegate, ma contemporanee alla chiesa; pezzi antichi, viceversa, sembrano soltanto le due di dimensioni maggiori, una in granito (integra, h. m. 4,45, diam. 61,4), l'altra in marmo bianco (un suo frammento era in vista tra i ruderi), che dovevano trovarsi presso il primo valico, vicino all’ingresso. I resti della Cattedrale hanno permesso di identificare la presenza di una cripta a cui probabilmente sono pertinenti alcune colonne tortili, scanalate ed istoriate databili tra la fine dell'VIII sec. ed il IX sec., conservate nell'attuale Cattedrale di Mileto e confrontabili con alcuni esemplari della Cripta della Cattedrale di Otranto e della Basilica di S.Nicola a Bari. Rimane molto dubbia la sorte toccata ai capitelli che, secondo quanto tramandato un documento del 1744, furono fatti “indorare” insieme agli archi, dal vescovo G. Panzani alla fine del XVII sec. Tra i capitelli di cui si dispone, non ve ne sono che portino le tracce di tale decorazione, tanto che si sono attribuiti tutti all’Abbazia. I viaggiatori dei secoli scorsi videro sulla soglia della Cattedrale una lastra con epigrafe pubblica, che menziona “quatuor viri” autori di un restauro del Tempio di Proserpina in Vibo Valentia (oggi al Museo di Napoli); la testimonianza è un’indubbia conferma della presenza di materiale proveniente dallo spoglio di edifici della Vibo romana, almeno nella Cattedrale, alla quale, peraltro, potrebbero anche essere pertinenti alcuni dei marmi di II sec. relativi ad una porta e descritti in precedenza, conservati nel Museo di Mileto. BibliografiaAa.Vv., Beni Culturali a Mileto di Calabria, Oppido Mamertina 1982. Asgari N., Observations on two types of quarry-items from Proconnesus. Column-shafts and column-bases. Ancient stones. Quarrying, trade and provenance, Louvain 1992. Asgari N., The stages of workmanship of the Corinthian capital in Proconnesius and its export form, in Classical marble, Dordrecht-London-Boston 1988, pp.115-121. 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