Edoardo D’AngeloCommittenza artistica del conte Ruggero ILa vita e l’opera di Ruggero d’Altavilla, detto il Gran Conte –d’ora in poi RGC- (1031-1101), si sviluppano tutte nel solco della grande epopea che fu la conquista della Sicilia musulmana da parte dei Normanni. Eccone le coordinate di fondo. Una grave crisi sconvolge la Sicilia musulmana nei primi decenni del sec. XI. Il governo dell’isola si incentra su tre emirati praticamente indipendenti: uno orientale, nella zona Catania-Noto-Siracusa; uno nella zona del nord ovest (Trapani e Mazara); uno nella parte meridionale dell'isola (Agrigento e Castrogiovanni). Messo alle corde già dalla spedizione bizantina di Maniace, e dagli attacchi dell'emiro di Agrigento, l'emiro di Catania Ibn Thumnah chiama in aiuto i Normanni di Roberto il Guiscardo, che ha da poco completato la conquista della Calabria bizantina (circa 1060). Il Guiscardo delega all'impresa il fratello Ruggero. Questi occupa la parte nordorientale dell’isola (1061), ma riesce ad entrare in Palermo solo nel 1072, proclamandosi conte di Sicilia. Ma la conquista dell’isola si definisce in maniera completa dopo molti anni: nell'86 cade l'inespugnabile Castrogiovanni, e l'ultima roccaforte saracena ad arrendersi è Noto, nel 1091. Sotto la lontana dipendenza (teorica) del duca di Puglia, RGC istituisce un forte potere comitale, in cui l’ordine amministrativo e fiscale è affidato a personale greco. Si procede al ripristino (e alla creazione ex novo) degli arcivescovati latini. Molto importante è in questo senso la concessione a RGC, da parte di papa Urbano II nel 1098, della cosiddetta Legazia Apostolica, grazie alla quale l’Altavilla diviene in pratica il capo del clero della Calabria e della Sicilia. «La committenza degli Altavilla nelle sue espressioni più originali mirò essenzialmente a celebrare le imprese e la memoria delle grandi figure della famiglia, in modo da qualificarne la fisionomia ideale e creare una tradizione politica» (Delogu). I discendenti di Tancredi cercarono di far dimenticare l’origine illegittima del loro potere, soprattutto mediante il patrocinio della costruzione o ricostruzione di chiese: «investendovi parte delle loro ricchezze essi ottenevano l’accordo del clero e si conciliavano le comunità locali … Un altro tipo di impresa meritoria e politicamente significativa era la costruzione di un monastero in cui il fondatore e la sua famiglia potevano essere sepolti, godendo delle preghiere di suffragio della congregazione» (Delogu). Alla constatazione e all’individuazione delle direttrici generali e delle caratteristiche complessive delle iniziative politico-culturali non corrispondono sempre, però, attribuzioni precise alla specifica funzione della committenza, e talvolta anche ai singoli committenti. La laconicità e quasi standardizzazione delle formule linguistiche con cui le fonti, sia letterarie sia documentarie, testimoniano l’intervento dei principi normanni in questo campo, permette di rado di determinare con precisione la funzione del promotore e il suo rapporto con le maestranze. Per Calabria e Sicilia pare comunque che il ruolo rivendicato dalla committenza sia stato non solo di dettare i caratteri generali del progetto, ma di indirizzarlo anche “tecnicamente” nella direzione e nella finalità dovuta, innanzitutto con la scelta delle maestranze e il reperimento e sovvenzionamento dei materiali. In questo senso un ruolo decisivo fu svolto dai numerosi Benedettini francesi scesi in Italia meridionale anche su richiesta diretta degli Altavilla. Né è possibile escludere ingerenze dirette sui “contenuti”. I primi conquistatori normanni d’Italia meridionale, e in particolare Roberto Guiscardo e RGC, dedicarono parte, talora rilevante, della loro attività e delle loro risorse a promuovere la costruzione di edifici monumentali e la fabbricazione di manufatti di prestigio. I prodotti di tali iniziative sono in parte oggi ridotti a resti archeologici; ma le intraprese architettoniche ed urbanistiche hanno lasciato tracce nella documentazione scritta, ed è in base a questa che è spesso necessario delinearne il quadro d’insieme. Una forma molto utilizzata dai signori normanni fu ad es. la memoria funeraria (tombe del Guiscardo a Venosa, di Beomondo a Canosa, di RGC a Mileto). Per le arti cosiddette minori, il discorso è più complicato; appare più difficile determinare provenienza e cronologia dei vari materiali, sicché è impossibile formulare un discorso relativo al singolo sovrano (tranne casi eccezionali, come il mantello di re Ruggero o la corona di Costanza). Nel campo della produzione di manufatti librari è protagonista la Sicilia, che denuncia stringenti rimandi non solo alla cultura miniata dell’Oriente, ma anche a quella della Normandia e dell’Inghilterra; nell’isola governata da Ruggero II e Guglielmo II circolavano codici di origine monastica anglonormanni, e la stessa cosa può dirsi per l’età di RGC, anche se è andata perduta la documentazione libraria che certamente dovette essere disponibile nelle grandi abbazie calabresi della prima generazione normanna (sicuramente a Mileto e a Sant’Eufemia). Nel complesso, il patronato artistico promosso, pur senza alcuna radicata esperienza, dal Guiscardo e da RGC mostra le stigmate del pionierismo (soprattutto se paragonato a quanto fatto dai principi normanni nella seconda metà del sec. XII, sia in Italia, che in Normandia e in Inghilterra), e si caratterizza soprattutto per la varietà delle componenti, che determinano un sincretismo artistico o “stile misto” unico nel suo genere, e che condizionerà in maniera evidente gli sviluppi successivi della produzione artistica “normanna”. Non è sempre facile determinare l’apporto di committenza specifica operata da RGC; egli si trovò a operare in una realtà, quella siciliana, assolutamente diversa dal punto di vista socio-etnico-culturale rispetto alle regioni continentali. Che tale attività vada legata alla sfera pubblica di RGC resta avvalorato, oltre che da ovvi motivi politici, dal fatto che sappiamo molto poco della sua vita privata; amava la musica, e non andiamo oltre una generica disponibilità verso la cultura, bilanciata peraltro da una forte propensione per la scurrilità da caserma. Le sue iniziative in campo mecenatistico vanno strettamente correlate a quelle del Guiscardo, e inserite nel quadro della politica normanna nella seconda metà del sec. XI. Tale politica punta soprattutto in direzione di una “ricristianizzazione” della Sicilia musulmana, e di una “rilatinizzazione” dei territori conquistati dagli Altavilla all’impero bizantino (Puglia, Lucania e Calabria). In quei decenni si venne riqualificando il territorio e gli abitati, attraverso l’allargamento degli impianti preesistenti e la costruzione di nuovi edifici monumentali. L’alleanza con la Chiesa di Roma, tramite la mediazione degli abati cassinesi (Concordato di Melfi, 1059), e in seguito la concessione della Legazia Apostolica, assegnano al Guiscardo e a RGC una libertà di manovra notevole. Nella strategia di politica ecclesiastica di RGC, che tendeva ad istituire una coincidenza tra sede comitale e sede vescovile (in chiave antibizantina), un posto di rilievo è occupato dalla traslazioni dei titoli episcopali (alla Cattedrale di Mileto RGC porta il titolo già di Vibo). Ma mentre il duca di Puglia puntò subito sulla creazione di un grande “impero benedettino” da contrapporre all’intelaiatura monastica italo-greca (fondazione delle abbazie della SS. Trinità di Venosa e di Sant’Eufemia), il conte di Sicilia si appoggiò in un primo momento -per delle ragioni transitorie- anche all’elemento greco (monasteri basiliani). Entrambi, comunque, favorirono una massiccia immigrazione di ecclesiastici normanni, ai quali RGC, in particolare, affidò le prime diocesi ricostituite di Sicilia (Girgenti, Mazara, Siracusa, Catania), e che svolsero sotto di lui un importante ruolo culturale (cfr. infra). Le fonti che consentono una ricostruzione della politica di committenza artistica di RGC sono essenzialmente: la cronaca di Goffredo Malaterra e una serie di diplomi di fondazioni o rifondazioni di chiese e monasteri. Nell’ultimo decennio del secolo XI si assiste alla costruzione di nuove chiese e di nuovi monasteri e alla restaurazione di fondazioni già esistenti. Sono attestati 15 diplomi rilasciati da RGC a favore di monasteri greci, diplomi costruti tutti sullo stesso schema. Un monaco o un prete si presenta al conte, pregandolo di concedergli un determinato edificio sacro, per fondarvi o ricostruirvi un monastero. RGC esprime il suo consenso, avendo constatato le qualità del rogante, e gli assegna la chiesa e alcune terre, segnando i confini, e dichiarandola immune dall’ingerenza di qualsiasi suo funzionario, disponendone peraltro l’esenzione solenne dalle diocesi (Fonseca). Tali iniziative sono da ascrivere alla fioritura basiliana in un primo momento alimentata da RGC, «il che si manifesta in numerose donazioni a favore di comunità greche, accompagnate dal restauro di antichi cenobi; questo nuovo atteggiamento, annunciato già da Ruggero I in Sicilia, sarà sviluppato dopo la sua morte dalla reggente Adelaide e rimarrà costante sotto il suo successore Ruggero II» (Bozzoni). Malaterra (IV 7) ricorda che solo dopo aver sottomesso tutta la Sicilia RGC «coepit Deo devotus existere», e a costruire chiese per ogni dove: «iusta iudicia amare, iustitiam exequi, veritatem amplecti, ecclesias frequentare cum devotione, sacris hymnis adstare, decimationes omnium redditum suorum sacris ecclesiis attribuere . Ecclesias passim per universam Siciliam fieri imperat; ipse pluribus in locis de suo sumptus, quibus facilius fiant, attribuit». Testimoniate da Malaterra sono, nello specifico: la fondazione di San Nicola a Messina (III 32); la riedificazione di Sant’Andronio (II 7); la riconsacrazione e arricchimento di S. Maria, antico arciepiscopio di Palermo, che RGC rimette in auge al momento di strappare la città ai Saraceni, nel 1071 (II 45). Inoltre, tra il 1070 e la fine del secolo, sorsero o risorsero tutta una serie di siti ecclesiastici, per i quali è testimoniata o molto probabile la committenza comitale, senza peraltro che di questa si possano definire maggiormente i risvolti specifici: Cattedrale di Mazara (fine sec. XI); S. Elia di Ebulo (1094); S. Elia di Scala Olivieri; S. Filippo di Fragalà in Val Demenna (1090); S. Giorgio di Triocala; San Giovanni Vecchio di Stilo (1100); S. Maria di Mandanici; S. Maria di Mili (1091); S. Maria Tridetti (fine sec. XI); S. Maria di Vicari; S. Michele Arcangelo di Brolo; S. Michele di Troina (1092); S. Nicandro di San Nicone (1093); S. Nicola di Elafico; SS. Pietro e Paolo di Agrò; SS. Pietro e Paolo d’Itàla (1093); S. Salvatore di Placa. Più specifico un altro passo di Malaterra (III 19), che ci informa sugli aspetti tipologici dell’intervento mecenatistico di RGC. E’ quello relativo alla fondazione della diocesi e della chiesa di Troina: RGC in persona si occupa dell’organizzazione delle maestranze (cementarios conducens), della gettata delle fondamenta (templi iacit fundamenta), fa eseguire pitture murali (parietes depinguntur) effettua donazioni (multa dos, diversae copiae), e si occupa della fornitura di arredi sacri (ornamenta, candelabra, cruces, textus, turibuli), nonché della attribuzione di pertinenze e decime (terrae e decimae). Assai indicativo anche Malaterra III 32: «eodem anno idem comes, sumptibus pluribus apparatis, undecumque terrarum artificiosis caementariis conductis, fundamenta castelli, turresque apud Messanam iacens, aedificare coepit: cui operi studiosos magistratus, qui operariis praeessent, statuit. Interdum ipse visum veniens, ipsos per semetipsum cohortando festinantiores reddens, brevi tempore turrim et propugnaculum immensae altitudinis mirifico opere consummavit». RGC non solo si preoccupa di rinvenire i finanziamenti per l’opera architettonica, ma coordina la chiamata delle maestranze (operai e architetti: coementarii e magistratus), e si reca di persona sui cantieri per controllare il lavoro degli operai e spronarli all’impresa. Nel caso di Sant’Agata di Catania, è invece l’abate Angerio, che non era tecnicamente il patron, secondo la terminologia del Du Colombier, ad assumersi, in una orgogliosa iscrizione, il merito del progetto e della realizzazione dell’opera «Istius ecclesiae primus fundamina ieci, Muros et turres, faciendaque cetera feci». Bisogna dunque in questo caso distinguere il ruolo di RGC (committente puro) da quello dell’esecutore della realizzazione concreta della commissione. In architettura, la traiettoria socio-ecclesiastico-culturale dell’azione politica del Guiscardo e di RGC (quella che il Resta chiama «decisa volontà di colonizzazione ideologica») si atteggia in un affiancamento delle strutture basilicali (modello benedettino-cassinese, il cui riferimento progettuale è la chiesa di San Benedetto a Montecassino, ideata dall’abate Desiderio), agli elementi architettonici più propriamente “normanni” (modello franco-normanno, il cui schema-tipo è la cattedrale di Aversa). Utilizzando l’utile classificazione di Mario D’Onofrio, si può dire che nei territori governati da RGC prevalga il modello architettonico benedettino-cluniacense (la cui tipologia è da individuarsi nella chiesa della SS. Trinità di Mileto), a cui appartengono edifici non solo calabresi, ma anche siciliani. Lo studioso romano individua poi un gruppo siciliano, che pur avendo molte connessioni con la tipologia precedente, assumerebbe una posizione indipendente, in quanto accorperebbe le esperienze architettoniche e decorative più diffuse nel Mezzogiorno tra i secc. XI e XII, comprese le esperienze d’Oltralpe. Tale “revival” paleocristiano nasce in perfetta sintonia con gli ideali riformistici che agitavano, proprio in quel periodo, la vita della Chiesa occidentale. Non a caso, anche RGC si fece promotore di massicce istallazioni cluniacensi sui suoi territori. Elementi cluniacensi ed elementi locali concorrono dunque a una precisa volontà programmatica politica, e cioè la Rekatholisierung della Sicilia e della Calabria. Tale sincretismo artistico è evidente nelle forti immissioni di schemi cluniacensi (identificabili soprattutto nelle strutture dei cori, gradonati, e nelle cupole-torre con funzione anche difensiva), intimamente connesse ad elementi greci e, come sottolineato dal Bozzoni, ad elementi appartenenti «cultura architettonica campano-cassinese». In questo piano politico di latinizzazione dell’Italia meridionale, spicca la figura del normanno Roberto di Grantmesnil, già abate di Saint-Evroult-sur-Ouche, costretto all’esilio dal duca di Normandia Guglielmo il Conquistatore. Il Guiscardo gli assegna la direzione del suo programma di politica architettonica ecclesiastica. RGC gli “appalta” l’abbaziale di San Michele Arcangelo di Mileto (consacrata nel dicembre 1080); è proprio quest’ultimo insediamento, dedicato nel XII secolo alla SS. Trinità, il probabile riferimento dal punto di vista formale di tutta una serie di edifici posteriori sorti in area calabrese, tra cui la chiesa abbaziale di Santa Maria della Roccella, della fine dell’XI secolo, e la cattedrale di Gerace, costruita tra il 1085 e il 1110). Suggerisce inoltre rimandi tipologici anche all’area siciliana (cattedrali di Mazara del Vallo, 1086-1093, Catania, 1086-1090, Messina, inizio del sec. XII). Lo schema tipologico dell’abbaziale della SS. Trinità di Mileto (progettata da Roberto di Grantmesnil), per quanto oggi si sappia, è quasi certamente ascrivibile alla nota abbaziale di Cluny II (fine del sec. X). Tale edificio è –come detto- il prototipo del modello benedettino-cluniacense, ma vi è evidente anche la presenza di elementi per così dire “indigeni” (campano-cassinesi). Fu scelto da RGC come mausoleo per sé e la sua famiglia: vi è seppellito accanto alla seconda moglie, Eremburga di Montreuil. Il sarcofago che conteneva le spoglie è attualmente al Museo Archeologico di Napoli, dopo essere stato miracolosamente salvato dal terremoto del 1783. Su di esso è iscritta la seguente (banale) epigrafe: «Linquens terrenas migravit dux ad amoenas Rogerius sedes nunc coeli detinet aedes». Di enormi dimensioni, esso sembra indicare un cambiamento di parametri ideologico-politici. Il riutilizzo di sarcofagi antichi non corrisponde né alla prassi normanna né a quella longobarda o bizantina, ma erano piuttosto i papi che, a partire dalla metà dell’XI secolo, si servirono per le loro sepolture di opere antiche; e sembra che RGC avesse conosciuto almeno il sarcofago di Gregorio VII nella cattedrale di Salerno. Tale scelta, dunque, appare inquadrabile nella generale politica di appoggio al Papato sempre attuata dal conte di Sicilia, e dallo stretto legame che sempre lo avvinse soprattutto a Urbano II. Nella cattedrale di Gerace (anch’essa di probabile committenza ruggeriana), l’andamento basilicale, di chiara matrice riformista, associato al coro prolungato (elemento evidentemente cluniacense) si sposa con elementi greci (raccordi a gradi della cupola), denunciando le caratteristiche fondamentali della politica architettonica di Roberto di Grantmesnil: il matrimonio tra l’eredità locale (in questo caso greca) e le istanze riformiste (cluniacensi, o cassinesi), in chave antimusulmana e antibizantina. Questo edificio, di cui è incerta la data di consacrazione (1085-1120 circa) è, a parere del Berteaux, l’unica testimonianza delle costruzioni del periodo di RGC. Molto intensa fu l’opera di arricchimento e abbellimento delle chiese fondate o rifondate da RGC, mediante la donazione di imponente suppellettile sacra. Così per la chiesa di Agrigento (Malaterra IV 7), e per molte altre. L’uso dell’orificeria a fini anche diplomatici è dimostrato dalla notizia per cui RGC nel 1101 effettuò, insieme a Ruggero Borsa, una donazione al vescovo di Le Mans, Ildeberto di Lavardin, di 150 kg di incenso, stoffe preziose, suppellettili liturgiche e cento once d’oro. In pittura, salvo rare eccezioni, il panorama offerto dalle regioni italomeridionali è sostanzialmente privo di referenti espliciti o impliciti alla realtà politica e sociale normanna; diverso è per la Sicilia, ma non è ampia la traccia lasciata di RGC. Certo è che egli abbia esaltato la sua azione politica facendo dipingere sulle pareti della chiesa siciliana di Ravenosa la “memoranda impresa” contro i Musulmani. Il ciclo è andato perduto, ma viene considerato nella sua testimonianza una sorta di pendant mediterraneo dell’Arazzo di Bayeux: una rappresentazione sul versante figurativo dell’epos narrato in cronaca da Malaterra. Il committente del paramento, Odone vescovo di Bayeux, morì infatti a Palermo, nel 1097, in presenza del vescovo Gilberto d’Evreux, che lo fece seppellire nella basilica metropolitana e gli eresse un magnifico monumento per ordine dello stesso RGC (come ricorda Orderico Vitale nell’Historia ecclesiastica). La committenza meglio documentata e storiograficamente più perspicua, effettuata da RGC è quella relativa alla composizione dell’opera storiografica di Goffredo Malaterra (De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius): un ampio e approfondito resoconto biografico sui due Altavilla, ma in particolare sulla conquista della Calabria e della Sicilia da parte di RGC. Diverso il destino del Guiscardo, in questo senso: pur essendo al centro di due autentici monumenti della storiografia “normanna” meridionale, l’Historia Normannorum di Amato di Montecassino, e i Gesta Roberti Wiscardi di Guglielmo di Puglia, egli non commissionò mai direttamente cronache propagandistiche. Di Goffredo Malaterra sappiamo poche ma sicure cose: fu iniziato alla vita claustrale nel monastero normanno di Saint-Evroul-sur-Ouche; scese in Italia meridionale alla metà del sec. XI, andando a risiedere nei monasteri della Trinità di Venosa e della Trinità di Mileto (con Roberto di Grantmesnil); ma visse a lungo anche in Sicilia, ed è qui che l’attenzione di RGC si fissò su di lui: il monaco normanno viene scelto per tramandare le gesta dei due più importanti figli di Tancredi d’Altavilla, in particolare quella del conquistatore della Sicilia. La figura di RGC anima le pagine malaterriane: da lui si espandono l’esempio della virtù e dell’abnegazione, lo spirito di sacrificio, in nome della nobile causa che è la cacciata dei Musulmani dall’isola. Malaterra sembra convinto della “missione” che RGC ha da compiere, missione voluta dal Cielo; egli legge in questa chiave anche la concessione della Legazia apostolica, che viceversa rappresentava un atto di sottile abilità diplomatica da parte di papa Urbano, per attrarre il Normanno nell’ambito della “legalità” ecclesiastica. L’opera è formalmente dedicata al vescovo (normanno) di Catania, Angerio (giunto in Italia al seguito di Roberto di Grantmesnil, e, come detto, fondatore del monastero latino di Sant’Agata, a Catania, di cui fu abate), che aveva messo in piedi nella città etnea uno scriptorium di notevole spessore. Ma la committenza reale è di RGC, del quale, nel proemio, Malaterra ci informa essere lettore di storiografi (si può supporre abbia avuto conoscenza anche dell’opera di Dudone di San Quintino o di Guglielmo di Poitiers): «conoscitore di molti scrittori che raccontano la storia antica, il grande principe Ruggero, consigliato anche dal suo entourage, ha deciso di dare mandato a me di mettermi all’opera per scrivere un’opera che narrasse le sue vittorie, ottenute a prezzo di enormi pericoli, e cioè la conquista della Calabria prima e della Sicilia poi. E io, poiché egli in passato mi ha dato prova concreta della sua benevolenza, non ho alcuna intenzione di rifiutarmi a qualsiasi cosa mi chieda». Che l’opera sia stata scritta su committenza diretta di RGC è testimoniato anche da Orderico Vitale, monaco anch’egli a Saint-Evroul: egli definisce il De gestis malaterriano come l’«elegantem libellum» scritto «hortatu Rogerii comitis». La strategia di propaganda politica di RGC in campo letterario trova in Malaterra un realizzatore di alto livello, che contribuisce in maniera decisiva alla creazione del “mito” dei Normanni, e alla identificazione totale di questi con gli Altavilla. Per lui, vale ciò che notava Gianvito Resta per un po’ tutta la cultura normanna: le corti normanne tendono a veicolare la cultura ufficiale nelle forme più esaltanti e recepibili della narrazione delle res gestae, e s’appoggiano all’attività culturale di propaganda religiosa affidata ai monasteri, «mentre l’avvilente arretratezza sociale ed economica dell’isola … non consentiva alcuna possibilità di partecipazione alla elaborazione della nuova cultura». Nella scia, ma anche superandoli nella resa, di un Amato di Montecassino e del biografo dello stesso Guiscardo, Guglielmo di Puglia, Malaterra stende uno dei resoconti più vivi e affascinanti della storiografia mediolatina, mettendo in scena il fascino dell’avventura “precrociata” di RGC, ed aprendo al tempo stesso la strada, col quarto libro, a quella storiografia normanna di tipo «statuale», che troverà la sua realizzazione più ufficiale nella biografia di Ruggero II dell’abate di Telese, e a quella, più “tacitiana”, della corte dei due Guglielmo, che è l’affascinante Liber de regno Sicilie del misterioso Ugo Falcando. BibliografiaMalaterrae Gaufredi De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, ed. Pontieri E., RR.II.SS., n. s. 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